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Testo originariamente pubblicato da Marco Travaglini su La porta di vetro (link).

Faggeto Lario dista poco più di 15 chilometri da Como. In auto, una mezz’ora di strada. Avete presente «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi..» descritto dal Manzoni ne “I promessi sposi”? Bene: il nostro “ramo” è quell’altro. E’ lì che, con il pullman dell’Azienda Comasca Trasporti in servizio sulla tratta Como-Bellagio, passando da Blèvio e Torno, sono arrivato un pomeriggio d’agosto del 1976. Avevo diciott’anni e la mia destinazione era l’Istituto di studi comunisti “Eugenio Curiel”.[1]

Un tempo, dopo la Liberazione, la “scuola quadri” del PCI nel comasco portava il nome di “Anita Garibaldi” ed era  riservata alle donne. All’epoca, il PCI di Berlinguer teneva molto allo sviluppo di una politica culturale rivolta alla nuova generazione di militanti, funzionari e quadri intermedi che entravano a ingrossare le file del partito. Una grande importanza avevano le scuole di partito, la cui attività formativa si svolgeva attraverso l’organizzazione di corsi di base, presso le sezioni o le federazioni provinciali, oppure presso le strutture permanenti, tra le quali la più nota era l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie (dal 1973 intitolato a Palmiro Togliatti), in una frazione di Marino, località dei Colli Albani una ventina di chilometri a sud di Roma. Lì si formavano i quadri dirigenti, si insegnava l’arte della politica. Non si imparava solo la “linea”. Chi frequentava i corsi studiava storia, economia e altre materie ma, soprattutto, ci si formava sull’idea che far politica era una professione al servizio degli altri, di un ideale, di una causa. Insomma, una cosa seria.

Leggi tutto: Il racconto. La severa scuola politica di Faggeto Lario

I corsi erano impegnativi e di lunga durata. I periodi di permanenza variavano da un anno a sei mesi fino a poche settimane. Il mio era un “corso estivo per giovani operai”, della durata di tre settimane che, praticamente, corrispondevano alle mie ferie. Le giornate venivano scandite secondo un programma preciso: ore 7, sveglia e riordino delle stanze; ore 7.55, inizio dei corsi; ore 12, pranzo e riposo; ore 15, discussione e studio; ore 19, cena e libera uscita (quando non capitava qualche riunione serale); ore 22, rientro. Su questo non si sgarrava.

Una sera che, in tre, con l’auto di un compagno di Genova (una vecchia Simca 1000) andammo alla Festa de L’Unità di Bellagio, essendo tornati verso le 23 trovammo il cancello chiuso e dormimmo sotto i salici in riva al lago, perché nel parco della scuola, dopo le 22, venivano sguinzagliati per la notte due cani piuttosto “mordenti” e non era il caso di mettere alla prova le nostre gambe e, soprattutto,  le loro mandibole. Il direttore era l’ex senatore Giovanni Brambilla (Conti), succeduto al giornalista e intellettuale Piero Lavatelli. Operaio, confinato, partigiano, in passato vicesegretario della Federazione milanese del Pci e segretario generale della Fiom provinciale milanese. Un uomo tutto d’un pezzo, gentile ma ferreo nell’applicare la disciplina.[2]

I docenti erano di grande livello. Stava per essere pubblicato dagli Editori Riuniti “Economia politica marxista e crisi attuale” dell’economista Sergio Zangirolami, e si studiava con lui sulle sue dispense. Il giornalista e scrittore Luciano Antonetti, amico e biografo di Alexander Dubcek, protagonista della Primavera di Praga e leader di quel “socialismo dal volto umano” soffocato dai carri armati sovietici nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968, ci parlava di politica internazionale. Luciano Gruppi, intellettuale comunista di rango, vicedirettore della rivista “Critica marxista”, anticipò i contenuti di due volumi che sarebbero usciti di lì a poco: “Il compromesso storico” e “Il concetto di egemonia in Gramsci”. Insomma, per farla breve, era un corso impegnativo e, nello stesso tempo, intrigante. Imparavamo a mettere in ordine secondo una certa logica le intuizioni che avevamo colto nel muovere i primi passi in politica e questo ci dava una bella carica. Ma eravamo anche dei ragazzi, tra i diciotto e i ventiquattro anni, e amavamo anche divertici.

Non racconterò gli scherzi che si possono immaginare, come – tanto per fare un paio d’esempi – lo zucchero infilato sotto le lenzuola di Mauro Z., operaio metalmeccanico di Carpi, che andava sempre a letto senza pigiama perché soffriva il caldo, o il sale nella minestra di Roberto P., studente di Lodi, che la sputò schifato in faccia a Luigi F., anch’esso studente ma di Verona, che gli sedeva di fronte nel refettorio. Il sabato o la domenica, a seconda delle condizioni del tempo, si andava in gita sul monte Palanzone, con una bella sgambata di qualche ora. Tra canti partigiani e pranzi al sacco, quelle gite rafforzavano il nostro cameratismo. Le nuotate nel lago erano una consuetudine dopo pranzo, prima che entrasse in azione la digestione del pasto che, a dire il vero, era alquanto frugale. 

Ho sempre avuto una fifa blu nello spingermi dove non si toccava, quindi mi limitavo a quattro bracciate in orizzontale, poco distante dalla riva. Ma la cosa più straordinaria, e per certi versi tragica, capito’ a Bepi. Il cognome l’ho dimenticato, ma mi ricordo che svolgeva le mansioni di magazziniere in una distilleria di Bassano del Grappa. Quando arrivai in istituto a Faggeto Lario, Bepi era già lì da quindici giorni ed era molto nervoso. Non ci mettemmo molto a comprenderne le ragioni. A ridosso della scuola, appena oltre il muro, c’era una chiesa che un tempo era appartenuta alla stessa proprietà, ma che il partito, dopo averla acquisita, con gesto generoso, aveva donato alla curia comasca.

Del resto, che cosa ce ne facevamo di una chiesa? Chi aveva fede poteva tranquillamente frequentare le funzioni e queste erano di competenza della diocesi e non certo del PCI. Comunque il problema non era tanto la chiesa, ma l’orologio del campanile che, grazie ad un meccanismo ad ingranaggi collegato ad una campana, segnava non solo le ore ma pure le mezze. E se, per il Manzoni, verso sera “si sentivano i tocchi misurati e sonori della campana, cha annunziava il fine del giorno. …” per il povero Bepi s’annunciava il calvario di un’altra notte in bianco perché quel suono gli impediva di riposare. Così, un bel giorno, mi pare di venerdì, calate le ombre della sera, ormai esasperato, armatosi di un possente martello e di due cunei di ferro, lunghi e spessi, si arrampicò come un gatto sul campanile. Giunto all’altezza delle lancette dell’orologio, fissò con forza i cunei nel muro, bloccando il meccanismo che – in tensione per l’impedimento – si ruppe, bloccando il meccanismo che attivava la campana con un forte “crack”.

Così, dopo il blitz di Bepi, la notte trascorse in un silenzio irreale e così anche il giorno dopo fino a quando, avvertito del danno che aveva guastato l’orologio, il parroco diede in escandescenze, accusando “quei senza Dio di comunisti” di “aver tagliato le corde vocali alla cristallina voce della Chiesa”. Ma, non avendo prove, dopo un po’ di baillamme, la polemica si stemperò nel nulla. Cosa diversa fu invece l’inchiesta interna condotta dal direttore Brambilla che, superando il nostro muro del silenzio, ottenne da Bepi una piena confessione dopo che lo stesso aveva manifestato un repentino cambio d’umore, canticchiando una poco edificante canzoncina il cui ritornello prometteva di mandare a fuoco le chiese per poi, sulle macerie, costruire delle sale da ballo.

Reo confesso, Bepi lasciò la scuola e tornò a Bassano mentre noi, per altri dieci giorni, continuammo il nostro corso di studi per poi tornare a casa. Così passai le ferie del 1976, tra amici e compagni, studiando e frequentando – quando si poteva, mettendo insieme i pochi spiccioli di cui disponevamo – l’Osteria dei Manigoldi, dove si poteva gustare la petamura. Non saprei come definirla: sembrava  un dolce, una specie di budino, ma era anche un pasto completo, composto da farina, latte, zucchero e vino. Era molto consistente e nutriente, nonostante fosse un piatto povero. Sarà stata la fame, saranno i ricordi un po’ sbiaditi della gioventù, ma quel piatto tradizionale di Faggeto dal colore violaceo era proprio una bontà.

Note

[1] Nato a Trieste l'11 dicembre del 1912 da famiglia ebraica, laureato in Fisica, espulso dall'Università per le leggi razziali del 1938, Eugenio Curiel aderì al Pci. Arrestato, inviato al confino di Ventotene, alla caduta del regime fascista, si stabilì a Milano dove prese la direzione de l'Unità. Entrato in clandestinità con i nome di battaglia "Giorgio", fondatore del Fronte della Gioventù, è uno dei primi dirigenti comunisti a sostenere l'unità delle forze popolari e l'azione comune con socialisti e Democrazia Cristiana. Il 24 febbraio del 1945, riconosciuto in strada da alcuni militi delle Brigate nere, probabilmente per una delazione, cerco di fuggire, ma venne ucciso. Medaglia d'Oro al Valor Militare.

[2] Giovanni Brambilla è uno degli organizzatori del poderoso sciopero del 1° marzo 1944 nella provincia di Milano che raccolse, secondo una sua personale ricerca, l'adesione di circa 300 mila lavoratori. Una cifra indirettamente confermata dai giornali della Rsi che daranno per la sola Milano 119.800 scioperanti. .

Articolo di Marco Travaglini originariamente pubblicato su www.laportadivetro.com (questo il link diretto).

Venerdì 25 ottobre, con la presentazione della una nuova edizione de “Il paese del pane bianco” di Paolo Bologna, presso la Biblioteca Contini di Domodossola, libro dedicato all’ospitalità svizzera ai bambini della Repubblica dell’Ossola, di cui ci parla Marco Travaglini, e la presentazione del libro “Quarante jours de liberté. Histoire de la république d’Ossola” di Jean-Noël Wetterwald e del cortometraggio “I bambini del pane bianco” di Davide Casarotti, si sono avviate a chiusura le celebrazioni dell'80° anniversario della Repubblica dell'Ossola.

Il ritorno della memoria ai quei giorni del '44, è cominciato il 10 settembre scorso, quando dal balcone del municipio di Domodossola sono stati esposti i drappi con i colori delle formazioni partigiane della val d’Ossola: verde per le divisioni Valdossola, Beltrami e Piave, rosso per la divisione Garibaldi e Redi e blu per la Valtoce. Srotolati dal sindaco Lucio Pizzi, che aveva al suo fianco i familiari dello storico Pierantonio Ragozza, recentemente scomparso, si è rivelato come nelle intenzioni un gesto simbolico di grande impatto per la storia Repubblica partigiana dell’Ossola, la più nota e importante dei territori liberi durante la lotta di Liberazione in Italia.

Nella circostanza, il primo cittadino di Domodossola ha pronunciato parole molto chiare: “Vogliamo ricordare l’esperienza di autogoverno dei 40 giorni di libertà che valse una medaglia d’oro al valore militare, ribadendo che quei valori fondanti sono vivi più che mai. Per questo voglio riaffermare chiaramente lo spirito che ci ha guidati: noi siamo antifascisti, Domodossola e il territorio sono antifascisti, ci riconosciamo nel valore della Resistenza e non siamo disponibili ad accettare alcun tentativo di revisionismo”.

"Nel '44 abitavamo alla Mizzoccola, un mio fratello era in guerra, mia mamma che era rimasta vedova quando non avevo ancora un anno doveva badare alle due sorelle più grandi, a me che avevo 10 anni, a mia sorellina… Al collegio Rosmini ci hanno messo il cartellino poi in treno a Briga. Sul treno le crocerossine mi hanno dato qualcosa da mangiare, pane e latte, e per paura di restare senza si cercava di nascondere il pane in tasca. A Briga ci hanno divisi, mio cugino è andato nel Ticino, io e mia sorella a Zurigo dove siamo stati 40 giorni… Siamo arrivati davanti ad una panetteria dove c'era esposto il pane bianco che non avevamo mai visto e dei dolci, siamo stati incollati col naso ai vetri davanti a quel negozio, il padrone dentro ha capito e ci ha fatto entrare. Ci ha dato pane, pezzi di dolce: abbiamo mangiato tanto che poi siamo stati male…".

Questo brano è tratto da una delle 45 testimonianze che il giornalista e storico, nonché partigiano Paolo Bologna raccolse nel suo libro "Il paese del pane bianco", che venne pubblicato trent'anni fa dall’editore Grossi di Domodossola, in occasione del 50° anniversario della “repubblica” dell'Ossola, e ripubblicato ora in nuova edizione (Grossi, 2024), a cura di Paolo Crosa Lenz. 

Nell'autunno del 1944, nel breve tempo di sei settimane, si consumò l'esperimento di autogoverno della "Giunta provvisoria di governo dell’Ossola". In quei “quaranta giorni di libertà” una intera zona che si estendeva per circa 1.600 chilometri quadrati, con una popolazione intorno ai 75.000 abitanti e capoluogo Domodossola, venne completamente gestito e governato dai partigiani. L’attività della Giunta provvisoria di governo andò ben oltre l’ordinaria amministrazione, destando l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica internazionale, e venne ricordata per lo spirito democratico e profondamente legalitario che la caratterizzò. Il territorio liberato nel settembre di quell'anno venne però riconquistato dai nazifascisti nel mese di ottobre. In quei giorni caotici si temettero rappresaglie sui civili e i comandi partigiani, in collaborazione con le autorità della vicina Svizzera, organizzarono una vera e propria operazione umanitaria, che portò oltre confine circa 2500 bambini italiani dai 4 ai 14 anni, accolti nella Confederazione Elvetica da centinaia di famiglie come fossero loro figli.

Foto della Croce Rossa Svizzera: bambini ossolani accolti in terra elvetica, ottobre 1944
Foto della Croce Rossa Svizzera: bambini ossolani in Svizzera, ottobre 1944

Così la vicina Svizzera offrì rifugio anche a migliaia di persone tra combattenti e popolazione civile, confermando la sua antica tradizione di ospitalità. Ne "Il paese del pane bianco", Paolo Bologna raccolse le testimonianze dei più piccoli, “alcune ingenue, tutte toccanti” che rappresentarono una sorta di sintesi dell’esperienza che quei bambini profughi vissero del 1944. Ogni testimonianza, ogni ricordo è parte di un mosaico dove prevale il senso dell’amicizia e della riconoscenza nei confronti delle famiglie elvetiche che diedero loro un tetto, di che sfamarsi e il calore della solidarietà umana. Un dono straordinario che rileggendo ora quelle storie, in un mondo dove i valori sembrano rovesciati, assume ancor più un valore, dal quale trarre motivo di riflessione.

Foto della Croce Rossa Svizzera: bambini ossolani ospitati in Svizzera

Per decenni quei bambini, diventati adulti, mantennero con le famiglie “affidatarie” un legame affettivo. Settantasette anni dopo, sfogliando le pagine di quel libro, guardando le foto in bianco e nero, leggendo i commenti, lo stupore, le speranze di quei bambini ci si dovrebbe chiedere se quella vicenda non possa essere assunta a modello di accoglienza ai giorni nostri, quando le cronache ci raccontano di migliaia di minori che cercano rifugio sulle nostre coste, in fuga da guerre, violenze, fame e carestie. Non dovremmo dimenticare che siamo stati un popolo di migranti, ma spesso facciamo finta di non ricordarcelo. Così si sente dire “rimandiamoli indietro!”, “affondiamo i barconi!”, “come può una madre affrontare un viaggio così con dei bambini!”. Parole che testimoniano l’incapacità di capire la profondità delle tragedie che si sono lasciati alle spalle. Dimenticando quando altri seppero accoglierci, pur senza essere obbligati a farlo. Rileggere il bel libro di Paolo Bologna aiuterebbe se non altro a capire quello che accadde in quel lontano 1944 e magari a riflettere un poco di più su ciò che ci accade intorno.

Riportiamo integralmente l'articolo scritto da Marco Travaglini e pubblicato originariamente su "Il Torinese" con la recensione del libro "Un vita operaia" di Giorgio Manzini (questo il link diretto).

Una vita operaia, libro scritto da Giorgio Manzini e pubblicato da Einaudi nella collana degli Struzzi Società nel 1976, non è evidentemente un libro nuovo e nemmeno si può dire sia stato all’epoca un bestseller anche se vendette parecchie copie. E’ comunque un libro importante e molto attuale. Giuseppe Granelli, classe 1923 (morto a novant’anni nel dicembre di dieci anni fa), colto operaio dell’acciaieria Falck di Sesto San Giovanni, era il protagonista di questo libro-inchiesta di Giorgio Manzini, giornalista mantovano prematuramente scomparso che fu per oltre trent’anni responsabile della redazione milanese di Paese Sera, storico quotidiano progressista romano. Granelli, cresciuto nel villaggio Falck divenne, grazie a Una vita operaia, l’emblema della condizione dei lavoratori metalmeccanici nell’Italia del secondo dopoguerra. Manzini lo interrogò a lungo dopo averlo scelto tra decine di migliaia di operai di Sesto San Giovanni perché era conosciuto come uno stimato sindacalista di fabbrica e una persona libera e intelligente. La sua era una vita come tante, chiusa in un giro ristretto ma anche investita “dai bagliori dei grandi avvenimenti politici”: la Resistenza, le illusioni dopo il 25 aprile del 1945, le difficoltà economiche del dopoguerra, la rottura del fronte operaio, la restaurazione, la caduta del mito di Stalin, la lenta riscossa sindacale che portò all’autunno caldo. Questo libro di Giorgio Manzini che potremmo definire allo stesso tempo un saggio, un’inchiesta o un romanzo verità – ripubblicato nel 2014 da Unicopli – assume oggi un significato ancora più profondo perché racconta di un uomo, quel Giuseppe Granelli, che per quarant’anni lavorò alla Falck di Sesto San Giovanni, acciaieria simbolo di una fase dell’industria italiana. La sua esistenza fu indissolubilmente legata a quella della città dove visse, ribattezzata la “Stalingrado d’Italia”, tra gli stabilimenti dell’acciaieria e il villaggio operaio al Rondò da dove partivano le grandi marce solidali. Vicende che sono diventate una parte della nostra storia nazionale: un simbolo altalenante di conquiste, di sconfitte, di risalite e di cadute, un microcosmo che può rispecchiare la vita dell’intero Paese. La fabbrica amata e odiata – il pane, la fatica, il conflitto – non c’è più. I resti dei vecchi capannoni (Concordia, Unione, Vittoria: si chiamavano così i vecchi stabilimenti della Falck), le fonderie, i laboratori, l’altoforno sono come ombre e fantasmi di un passato. Resta però la memoria di quella “vita operaia”, di Giuseppe Granelli che, una volta andato in pensione, diventò la “voce degli operai” e raccolse le biografie di quasi 490 sindacalisti della Fiom, militanti e semplici operai che avevano speso la vita in fabbriche come l’Alfa Romeo, la Falck, l’Innocenti, la Breda, la Pirelli, la Richard Ginori, la Magneti Marelli e tante altre di cui non ci si ricorda nemmeno più il nome. Un lavoro prezioso, svolto con una pazienza certosina, con la lucida coscienza che quelle vite raccolte a una a una, catalogate nell’Archivio del lavoro di Sesto San Giovanni, erano la sua eredità, la medaglie al valore che nessuno gli ha mai messo sul petto. Il padre di Granelli, Tone, aveva lavorato anche lui alla Falck Concordia per quarant’anni, manutentore al laminatoio. Lui, Giuseppe (detto Giuse, Tumìn, Granel) cominciò a faticare da ragazzo di fabbrica a 14 anni, per 84 centesimi l’ora a portar l’olio, scopare i trucioli di ferro, allungare gli stracci ai compagni alla macchina. Manzini con quel libro seppe fare di Granelli il simbolo di milioni di uomini di un passato ormai morto e sepolto. Questo libro appartiene, come scrisse Corrado Stajano, “alla letteratura industriale”, quella dei Carlo Bernari, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Primo Levi, Vittorio Sereni. Granelli conservò nel portafoglio per anni una fotografia di Stalin, per lui l’uomo della guerra patriottica, il vincitore delle armate naziste. Il ventesimo Congresso del Pcus lo visse come un trauma, la rivolta di Budapest del 1956 come un colpo al cuore. Ma Granelli non indulgeva in nostalgie e tenne sempre fede ai suoi principi di giustizia sociale: tolse dal portafoglio la foto di Stalin e non ne rimise altre. Amava il dubbio e il confronto. Aveva un grande rispetto per il sapere ed era curioso, frequentò a Milano la Casa della Cultura diretta da Rossana Rossanda, fu attratto dal fascino di Cesare Musatti e lesse i grandi libri della storia e della letteratura. Il libro di Manzini lo rese felice. Gli fece capire che una vita come la sua, simile a quella di tanti altri, poteva e doveva essere ricordata. Le ultime tre righe del libro raccontano la sua pazienza, la tenacia e la saggezza di quest’operaio che sapeva fare “i baffi alle mosche”: “L’importante è continuare il rammendo, sostiene Granel, e avere fiducia. Se non si avesse fiducia si starebbe qui a diventar matti tutti i giorni?”. Manzini è morto giovane nel 1991. Granelli da due lustri non c’è più : è sepolto nel silenzio del cimitero del paese dei suoi genitori, a  Moio De’ Calvi in alta val Brembana, nella bergamasca. Rimane questo libro, Una vita operaia, troppo bello e troppo importante per non essere ripreso in mano, leggerlo e riflettere su cos’è stata e cos’è tuttora la “condizione operaia”.

Marco Travaglini

Riproponiamo il testo di un articolo originariamente apparso sul sito della rivista Granma, tradotto e riportato poi su quello dell'Associazione Italia Cuba. Lo trovate qui in italiano.

Il Trading with the Enemy Act (Legge sul commercio con il nemico) è il pilastro di questa politica omicida contro il popolo cubano.

Non è una novità che il governo degli Stati Uniti abbia prorogato per un altro anno la legge che stabilisce le basi del blocco economico, commerciale e finanziario contro Cuba. Sarebbe una notizia se non lo facesse, perché questo è già nell’agenda del presidente eletto, indipendentemente dal partito vincente. C’è solo una base politica contro la più grande delle Antille: quella imperiale.

La scorsa settimana, Joe Biden ha svolto lo stesso ruolo dei suoi predecessori, in una scena ridicola e arcaica, nel XXI secolo, mantenendo in vita il Trading with the Enemy Act, approvato dal Congresso federale il 6 ottobre 1917. Questa legge conferisce al capo della Casa Bianca il potere di limitare il commercio con i Paesi “ostili” agli Stati Uniti e la possibilità di applicare sanzioni economiche in tempo di guerra o in qualsiasi altro periodo di emergenza nazionale, e vieta il commercio con il nemico o gli alleati del nemico durante i conflitti bellici.

È in base a questo testo legislativo, il più antico nel suo genere, che il Cuban Assets Control Regulations è stato attuato nel 1963, dopo che il blocco contro Cuba era stato imposto nel 1962 dall’allora presidente John F. Kennedy. Egli agì sotto l’ombrello di tale regolamento.

Il Trading with the Enemy Act è il cuscinetto di quella politica omicida contro il popolo cubano, che mira a uccidere attraverso la fame, i disordini e il caos. Questa norma dovrebbe essere applicata quando Washington considera una nazione un problema di sicurezza nazionale, e finora non ha emesso alcun documento contro Cuba a questo proposito, o quando c’è un conflitto militare, che non esiste, perché sgancia bombe lontano, in Medio Oriente, ma mai vicino alle sue mura.

Tuttavia, l’isola caraibica è l’unico Paese a cui il governo statunitense applica la vecchia legislazione. In precedenza vi erano soggetti anche la Cina, la Repubblica Popolare Democratica di Corea e il Vietnam.

Questo testo fa parte del quadro giuridico del blocco, che comprende altri come la legge sull’assistenza all’estero (1961), la legge sull’amministrazione delle esportazioni (1979), la legge Torricelli (1992), la legge Helms-Burton (1996) e il regolamento sull’amministrazione delle esportazioni (1979).

Secondo il rapporto presentato dal Ministero degli Esteri cubano, tra il 1° marzo 2023 e il 29 febbraio 2024, tale mostruosità ha causato a Cuba danni e perdite materiali stimati nell’ordine di 5.056,8 milioni di dollari, che rappresentano una perdita approssimativa di oltre 575.683 dollari per ogni ora di blocco.

I governi degli Stati Uniti si sono riempiti di leggi contro un piccolo Paese facendogli subire l’imbarazzo globale di non arrendersi ai suoi piedi”. Lo ha dichiarato sul social network x, il membro dell’Ufficio Politico e Ministro degli Affari Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla, secondo cui, “nonostante i gravi danni causati, continuano a fallire nel loro obiettivo di distruggere la Rivoluzione”.

Il 20 settembre 1944 la frazione “Cacciana” di Fontaneto d’Agogna, nota per la sua ventennale opposizione al regime, fu data alle fiamme dalle milizie fasciste.
Venerdì 20 settembre 2024, la comunità di Fontaneto ricorda quel tragico accaduto.
Il programma delle celebrazioni prevede:
• Ore 17.30, S. Messa presso la Chiesa Sant’Antonio da Padova in frazione Cacciana;
• A seguire, corteo verso il cippo dedicato alla Resistenza e deposizione degli omaggi floreali;
• Saluti delle Autorità e intervento del prof. Roberto Leggero, membro del Comitato ANPI Provinciale di Novara.
Con la partecipazione dei ragazzi delle Scuole di Fontaneto d’Agogna e del Coro Volante Cucciolo dell’ANPI di Verbania.
Al termine, aperitivo a cura della Pro Loco di Fontaneto.

E' online l'articolo che racconta la storia della Repubblica partigiana dell'Ossola, la più nota e importante dei territori liberi durante la lotta di Liberazione in Italia, e le celebrazioni per l'anniversario della sua nascita. In occasione dell'apertura delle iniziative lo scorso 10 settembre, il primo cittadino di Domodossola ha pronunciato parole molto chiare: “Vogliamo ricordare l’esperienza di autogoverno dei 40 giorni di libertà che valse una medaglia d’oro al valore militare, ribadendo che quei valori fondanti sono vivi più che mai. Per questo voglio riaffermare chiaramente lo spirito che ci ha guidati: noi siamo antifascisti, Domodossola e il territorio sono antifascisti, ci riconosciamo nel valore della Resistenza e non siamo disponibili ad accettare alcun tentativo di revisionismo”. L'articolo completo firmato da Marco Travaglini è disponibile su Il Torinese a questo indirizzo.

Riportiamo qui di seguito un articolo pubblicato su "Il Torinese" sulla storia dei fratelli Cervi

Il 25 luglio del ’43 Benito Mussolini venne arrestato, creando la temporanea illusione della fine del regime e della guerra. In realtà le cose andarono diversamente e i mesi successivi furono segnati dalle peggiori sofferenze per il popolo italiano, ma in quelle ore si festeggiò in tutta Italia la destituzione del Duce. Nella bassa pianura reggiana, fra i comuni di Gattatico e Campegine, in località Campi Rossi, dalla casa colonica dei Cervi partì uno degli eventi spontanei più originali, con una grande pastasciutta offerta a tutto il paese, distribuita in piazza a Campegine dalla famiglia per festeggiare l’evento, come disse Papà Cervi, con il “più bel discorso contro il fascismo, la pastasciutta in bollore”. I sette fratelli Cervi con i genitori e tutti i famigliari portarono la pastasciutta in piazza, nei bidoni per il latte. Con un rapido passaparola la cittadinanza si riunì attorno al carro e alla birocia che aveva portato la pasta. Tutti in fila per avere un piatto di quei maccheroni conditi a burro e formaggio che, in tempo di guerra e di razionamenti, rappresentavano prima di tutto un pasto prelibato, quasi di lusso. C’era tanta fame ma c’era anche la voglia di uscire dall’incubo del fascismo e della guerra, il desiderio di “riprendersi la piazza” con un moto spontaneo dopo anni di adunate a comando e di divieti. Di quel 25 luglio, di quella pagina di storia italiana è rimasto poco nella memoria collettiva. Eppure si manifestò in quei giorni uno spirito genuino e pacifico di festa popolare: prima dell’8 settembre, dell’occupazione tedesca, della Repubblica di Salò. Prima delle brigate partigiane e della lotta di Liberazione. Contadini mezzadri, i Cervi già all’inizio degli anni ’30 avevano espresso un deciso orientamento antifascista. I sette figli maschi di Genoeffa Cocconi e Alcide Cervi — Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore — vennero fucilati insieme a Quarto Camurri per rappresaglia nel dicembre del 1943 e la loro vicenda assunse subito un forte valore simbolico. La loro casa, punto di riferimento e di concreto aiuto per antifascisti, renitenti alla leva e per chi si opponeva alla guerra, è diventata il “Museo per la storia dei movimenti contadini, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne”. Da più di vent’anni questa festa antifascista, popolare e genuina, rivive non solo nell’aia del Museo Cervi ma in molte località del Paese. Anche in Piemonte si svolgeranno diverse manifestazioni in tutte le province organizzate dall’Anpi e dalle associazioni democratiche. L’idea di “esportare” la festa della pastasciutta ha conquistato e continua a conquistare territori e comunità, riproponendo gli stessi ingredienti della serata di casa Cervi: la festa per la caduta del fascismo, la pastasciutta, la rievocazione storica. E l’insopprimibile desiderio di libertà, pace e giustizia mai così forte e necessario come in questi tempi difficili.

Marco Travaglini

Scoppia la protesta dei cittadini per la discarica concessa dal sindaco di Maggiora.

Su "La Stampa" le lacrime di coccodrillo del primo cittadino.

Qui di seguito riceviamo e pubblichiamo, condividendolo, il comunicato stampa del Comitato Cittadini Maggiora Green.

Buongiorno,

Il Comitato Cittadini Maggiora Green, deriso, insultato e denigrato dalle affermazioni rilasciate ai giornali ed ai social dalla politica locale, sente il dovere di sottolineare che Democrazia significa “governo del popolo” in cui la sovranità è esercitata dai cittadini che ricorrono direttamente o indirettamente a strumenti di consultazione popolare ed in alcuni casi con forma di protesta.

La costituzione italiana garantisce la liberta’ di espressione di ogni singolo cittadino nel rispetto dell’altrui persona.

Una discarica di inerti come la nostra non accoglie solo calcinacci o materiali edili come ci è stato ripetuto in precedenza dal sindaco e dall’amministrazione comunale, bensì 37 tipologie di materiali tra cui fanghi e rifiuti di perforazione di pozzi di acque dolci, scorie di fusione, pietrisco delle massicciate ferroviarie ed altri scarti di ghiaia e pietrisco potenzialmente contenenti fibre di asbesto ecc...

Questa è la vergogna eterna che il paese si porterà dietro per anni ed anni.

Ed ancora una precisazione:

Alcuni striscioni, sono stati strappati e non rimossi… segno della poca democrazia.

Il sindaco poi riferisce della costituzione del “Comitato Cittadini Esausti” e di una lettera al prefetto contro questi striscioni. La lettera è datata 17 giugno e quindi molto prima della comparsa degli striscioni ed inoltre questa lettera di questo comitato o di cittadini esausti non è firmata da alcuna persona. Infine, per dovere di cronaca, si fa presente che la suddetta lettera è stata rispedita dal prefetto al comune per ogni opportuna valutazione e per eventuali profili di competenza del comune stesso.

Comitato Cittadini Maggiora Green

"Viviamo in un’epoca difficile, colma di preoccupazioni, paure e tensioni. Da molto tempo guerre e conflitti, problemi sociali e varie emergenze (non ultime quelle sanitarie) hanno costretto milioni di persone a vivere con il fiato sospeso, a volte rallentando la vita sociale... Oggi che il nostro modello di sviluppo appare infartuato e si parla di crisi di sistema, le persone come Langer sembrano davvero profeti inascoltati. Il problema è che riparare il mondo non è solo una missione culturale e politica; è anche, se non soprattutto, una gigantesca occasione di nuovo lavoro, nuova economia, nuovo e diverso sviluppo. E qui la sfida diventa immensa." Per voi un articolo in cui si parla della figura di Alexander Langer e. Lo trovate QUI.

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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