La Carta di Chivasso denunciava che il fascismo aveva condotto le valli alpine alla rovina economica «per la dilapidazione dei loro patrimoni forestali ed agricoli, per l'interdizione della emigrazione con la chiusura ermetica delle frontiere, per l'effettiva mancanza di organizzazione tecnica e finanziaria dell'agricoltura, mascherata dal vasto sfoggio di assistenze centrali, per la incapacità di una moderna organizzazione turistica rispettosa dei luoghi; condizioni tutte che determinarono lo spopolamento alpino».
Queste parole rappresentano fedelmente anche lo stato delle nostre montagne. Nel 1927, il fascismo aveva istituito la nuova provincia di Vercelli comprendente la Valsesia e la parte alpina del Biellese. Tuttavia alla provincia di Novara erano rimasti i monti e le valli del lago d’Orta, del Verbano e dell’Ossola. Su 156 comuni ben 89 erano considerati montani. Essi occupavano il 58% della superficie dove viveva il 42% della popolazione della provincia. Si trattava di una montagna “magra” ben lontana dalle potenzialità produttive della Valle d’Aosta o delle valli orientali ma anche inadatta ai modelli invasivi di turismo alpino che il regime aveva sviluppato al Sestriere o a Cortina.
Foreste, acque inquiete e guerre contro le capre. Durante il ventennio, continuò la spoliazione del patrimonio forestale inasprita durante la prima guerra mondiale col massiccio disboscamento della Val Grande. Per fare un esempio, a partire dagli anni Venti fu avviato lo sfruttamento intensivo da parte della grande impresa della porzione italiana della valle Onsernone. Tuttavia ai tagli non fecero seguito i risarcimenti e le dovute cure colturali. Lo stesso podestà di Armeno, comune che aveva posseduto uno dei patrimoni forestali più ricchi del lago d’Orta, fu costretto a riconoscerlo. Gli alberi rimasero per il fascismo un tema di propaganda da esibire, come il rimboschimento del monte Giano nel Reatino, da agitare, con la festa a loro dedicata nelle scuole, o da decorare, ponendo il fratello del duce a capo del Comitato forestale nazionale, ma nulla fu fatto per un razionale e rispettoso governo dei boschi.
Anche le generose risorse idriche furono malamente gestite. Nel 1927, l’insediamento del complesso chimico della Bemberg a Gozzano portò nello spazio di breve tempo alla morte biologica del lago d’Orta. In Ossola, l’acqua, che alimentava gli enormi invasi che fornivano energia alle industrie e ghiotti profitti ai grandi gruppi idroelettrici, era sottratta al governo dei pascoli e a volte li sommergeva. Così, l’acqua, che in quota mancava alle attività locali, era troppa nel fondovalle dove il Toce, privo di un adeguato sistema di arginature, sconvolgeva e rimodellava in continuazione con le sue furie la piana.
Il fascismo si proclamava difensore della ruralità e della montagna, ma gli effetti negativi della sua gestione del territorio ci consegnano una realtà ben diversa fatta di disarginamenti, alluvioni, frane, slavine, dissesti idrogeologici e conseguenti mutamenti climatici. Il paesaggio modellato dall’uomo attraverso i secoli mutò rapidamente con l’abbandono dei terrazzamenti, delle dimore e dei villaggi stagionali, usati in estate o in autunno, e con lo sconvolgimento della viabilità dai consueti percorsi da valico a valico ai nuovi itinerari che costringevano i valligiani a scendere a fondovalle per raggiungere le loro mete. La società alpina e l’economia silvo-pastorale ne risentirono pesantemente. Sul lago d’Orta andò in rovina una fiorente attività di piscicoltura e di pesca. Nelle valli furono via via abbandonate le colture della vite e della frutta (nel Vergonte bruciate dall’inquinamento industriale), i pascoli e il grano: negli anni della famosa “battaglia”, la superficie coltivata diminuì dei 2/3. Il frazionamento dei fondi, l’assenza di grandi aziende, laddove i comuni erano ancora i maggiori proprietari di terre, la mancanza di investimenti e innovazioni ne furono inevitabili esiti. Tra il 1929 e il 1952, il numero delle pecore e delle capre, vittime inconsapevoli di una vera e propria guerra da parte della milizia forestale fascista, si contrasse fino quasi a scomparire. Il patrimonio bovino, per quanto migliorato nella selezione e nella produzione di latte, scese da 32 mila capi a 22 mila. Continuò lo spopolamento montano con i montanari che si concentravano nel fondovalle dove le fabbriche e le attività terziarie avevano bisogno di forza-lavoro. Chi rimaneva in alto doveva combattere una dura lotta quotidiana contro la povertà facendo talora della permeabilità della frontiera svizzera un’occasione di reddito col contrabbando.
Partigiani della montagna. Questa era la montagna che i primi gruppi di resistenti si trovarono di fronte dopo l’8 settembre 1943. Il legame tra la guerra partigiana le Alpi o gli Appennini fu così stretto da rappresentare un elemento di identificazione. La sopravvivenza dei combattenti dipendeva dalle risorse dell’ambiente e dall’aiuto solidale delle popolazioni. La conoscenza del territorio, dell’antica ragnatela di passi, valichi e mulattiere consentiva ai patrioti di sfruttare appieno le potenzialità della guerriglia. Villaggi e baite, anche abbandonate, fornivano rifugi vitali. D’altro canto la montagna presentava le sue insidie e poteva trasformarsi in una trappola mortale come avvenne a Megolo il 13 febbraio 1944 oppure nel rastrellamento della Val Grande del giugno seguente: 300 morti tra partigiani e alpigiani e oltre 200 tra baite e rifugi distrutti dai nazifascisti.
Pochi mesi dopo, la Repubblica dell’Ossola rappresentò – le parole sono di Gianfranco Contini – «l’aria esilarante della libertà». Dopo vent’anni di centralismo dittatoriale e di corruzione, riprendevano l’entusiasmo, la fiducia nella partecipazione e l’organizzazione popolare. Non si arrivò alla convocazione dei comizi elettorali e la Giunta provvisoria di governo fu accusata di essere calata dall’alto e addirittura di non esprimere un ampio consenso popolare, ma le condizioni della Repubblica erano veramente emergenziali. L’intero territorio era zona di operazioni militari. Il carico di popolazione era cresciuto in modo abnorme per la presenza dei combattenti e dei rifugiati. I rapporti economici e commerciali col retroterra naturale della regione erano interrotti dal blocco posto al confine dai nazifascisti e gli unici scambi possibili erano con la Svizzera. Tuttavia, tenendo conto delle gravi difficoltà, molto fu fatto. Il 22 settembre la Giunta insediò i commissari dei piccoli comuni con lo scopo di radunare i capifamiglia, convocare le assemblee popolari e giungere alla scelta delle amministrazioni comunali. Né mancò la consapevolezza della questione montana e dei problemi impellenti come il sistema dei trasporti, l’assistenza nei piccoli comuni, la riapertura delle scuole, la tutela dell’infanzia oppure la necessità di regolamentare il taglio dei boschi, unica fonte di entrata per gli scarni bilanci comunali. Fondamentale fu lo sforzo di tutti per riavviare la vita e la società civile. Soprattutto, la Resistenza ruppe il silenzio del tradizionale conservatorismo, mosse le acque di un immobilismo secolare scrivendo una straordinaria pagina di autogoverno e di autonomia civile.
Roma ci sembra così lontana. La questione montana, rimasta priva di forte rilievo durante i venti mesi dei combattimenti, emerse con forza nell’immediato dopoguerra. Avvicinandosi l’autunno e il pericolo delle alluvioni, la prima preoccupazione fu quella relativa alle disastrose condizioni della piana del Toce. Il giornale dei partigiani “La Squilla alpina” se ne fece portavoce a partire dall’ottobre 1945 unitamente alla denuncia dello stato disastroso delle comunicazioni: dal cuore delle valli potevano essere necessari tre giorni per raggiungere Novara! Nel frattempo, si avvicinavano le scadenze elettorali e i partiti affinavano i programmi da sottoporre al giudizio dei votanti. Il primo a recepire le problematiche della crisi della montagna in chiave federalista fu il Partito d’azione e quasi tutte le forze politiche antifasciste, almeno a parole, ne condivisero l’attenzione. La soluzione politica era individuata nel decentramento amministrativo. Scriveva in proposito “La Squilla alpina” del 2 dicembre: «Ma Roma ci sembra così lontana e sovrattutto temiamo che il nostro problema che per questa regione è essenziale e vitale, raffrontato con tutti quelli che le altre regioni agitano davanti al governo centrale, possa perdere d’importanza. Ciò non è giusto. Questo dimostra praticamente la necessità e l’importanza di quel decentramento amministrativo regionale sostenuto anche dai giornali. Riteniamo che l’Ossola abbia tutte le condizioni per costituire una regione, per motivi geografici storici, economici e sociali.» Analoghe aspirazioni furono espresse in un’assemblea tenuta alla Camera del lavoro domese. Certamente quel concetto di “regione” era angusto e molto lontano da quello poi definito nel dettato costituzionale. Né si può tacere che si diffuse un atteggiamento di insoddisfazione, non alieno da sfumature separatiste, nei confronti di un potere centrale accusato di favorire uno scambio diseguale e poco solidale tra le risorse della montagna ossolana (il miliardo e 300 milioni di kwh, i 400 mila quintali di legna da ardere e i 60 mila mc di legname d’opera forniti) e le città, giudicate eccessivamente voraci e ingiustamente ingrate.
Tornando alla Carta di Chivasso, non emergono dirette e forti influenze sul movimento resistenziale novarese e del Verbano, Cusio, Ossola. Eccezione fatta per lo studio filologico di Contini sul «gergo» degli emigranti varzesi e nonostante la presenza degli insediamenti walser, non traspare nemmeno un’attenzione al problema linguistico e culturale così marcata invece nella Carta. I suoi effetti furono invece determinanti nel dotare il nostro sistema costituzionale di un’idea nobile e moderna di decentramento amministrativo che, a partire dall’autonomia valdostana del gennaio 1946 e dall’appassionato dibattito in sede costituente, attraverso un percorso disseminato di ostacoli, giunse a compimento nel 1970 con l’istituzione delle regioni. [dalla rivista "Nuova Resistenza unita", IV trimestre 2023]