Non c’è altro da aggiungere. Con l’elezione del Presidente della Repubblica, la parabola della degenerazione del sistema politico italiano ha compiuto un altro passo in discesa. Il dato fondamentale è stato l’incapacità di questo ceto politico di selezionare al suo interno e di candidare una solo faccia minimamente presentabile. Il che, tra l’altro, la dice lunga sul rispetto e sulla fiducia che i parlamentari ripongono nei confronti di se stessi, dei loro colleghi e del loro ruolo. Nei nomi proposti durante gli scrutini alla fine si è trovato un po’ di tutto come in una vecchia soffitta dal tetto squarciato: qualche vecchia cariatide della balena bianca; topi di ministero; sinistri scricchiolii di servizi di sicurezza (nome che, solo al pronunciarlo, evoca alcune tra le pagine più tetre della repubblica); magistrati; avvocati e ministri berlusconiani. Mancava solo, ingiustamente dimenticato, il bibliotecario Giuseppe Garibaldi del film di Claudio Bisio. Il tutto è stato abbondantemente annaffiato da una pioggia battente di schede bianche, astensioni, assenze, comportamenti che rappresentano la negazione esplicita del ruolo del parlamentare e del politico, sia pure borghese.
Si esprimono in questa melma non solo una crisi epocale che perdura dal 2008 e i contorcimenti di una piccola borghesia allo sbando che fornisce a questo ceto politico il personale e l’intelaiatura fondamentale, ma anche la frammentazione degli interessi di classe e l’incapacità della stessa classe dominante di radunarsi, di governare le proprie contraddizioni e di esprimere un’idea coerente di direzione politica. Del resto, ormai da tempo, le decisioni che contano sono assunte al di fuori dei confini nazionali e delle aule parlamentari.
Si colgono in questo modo anche i frutti ideologici della demolizione e della demonizzazione della cultura politica e dei partiti, quelli borghesi e quelli della sinistra istituzionale, sostituiti da contenitori di plastica buoni per ogni tipo di clientela: comici, avventurieri e dilettanti allo sbaraglio, corrotti, inquisiti, condannati e campioni del salto della quaglia. A governare questa rissosa pozzanghera trasformista, ben peggiore di quella della “sinistra storica” di Agostino Depretis degli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento, e a decidere è rimasto il primo ministro Draghi, il commissario della finanza e dei poteri forti dell’Europa.
Alla fine, la soluzione non poteva essere che quella dell’unanimismo di facciata, fratello germano del trasformismo. In ogni caso, con la rielezione di Mattarella la costituzione repubblicana perde un altro pezzo: dopo l’infausta scelta di Napolitano, nonostante la chiara contrarietà del dettato costituzionale, la ripetizione del settennato presidenziale non è più un’eccezione, ma diventa una prassi. Proviamo a immaginare, quale ricadute perverse possa avere questo mutamento in presenza di ulteriori colpi inferti al ruolo del parlamento e ai meccanismi elettorali (legge elettorale e regolamenti parlamentari inevitabilmente saranno i prossimi terreni di contesa con la scusa di ridare rispettabilità a un ceto politico che non l’ha mai avuta) o, ancor peggio, all’eventualità di un presidenzialismo patriottico, caldeggiato dai fascisti. Qualcuno è convinto che Mattarella congelerà la caparra per la casa dei Parioli fino al termine della legislatura e alle nuove elezioni, per cedere poi lo scranno del Quirinale a Draghi. Un esito quanto mai improbabile che, in ogni caso, non risolverebbe nessun problema. Tutti in piedi ad applaudire, dunque? Ma per i proletari nulla cambia.