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DUE INGIUSTIZIE, DUE VERGOGNE

L’inchiesta del caporedattore dell’Ansa Vincenzo Sinapi, da poco uscita per i tipi di Mursia, ritorna sulla tragedia dell’eccidio di 150 contadini di Domenikon perpetrata dal regio esercito italiano e dalle camicie nere nel 1943 durante l’invasione della Grecia. Il libro, che si giova dell’autorevole Prefazione degli storici Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer, ricostruisce in maniera dettagliata i fatti e la successiva, mancata, stagione processuale. L’impunità dei colpevoli del massacro di Domenikon, così come quella degli autori degli altri crimini di guerra nazifascisti, fu una scelta politica dei governi democristiani del dopoguerra, una doppia vergogna incardinata sul baratto tra il salvataggio dei criminali di guerra italiani e l’impunità dei responsabili delle stragi naziste nel nostro paese. Nonostante l’impotenza dimostrata dalla giustizia, terreno sul quale nonostante tutto bisogna continuare a lottare, rimane il giudizio ben più forte affidato alla storia, alla memoria e alla mobilitazione popolare contro negazionismi di ogni tipo e contro i rigurgiti nazifascisti.

 

Martedì 16 febbraio 1943, un’autocolonna di rifornimento partita da Larissa e diretta a Elissona, fu attaccata da un reparto dei partigiani dell’ELAS. Durante il combattimento, rimasero uccisi nove soldati del regio esercito italiano di occupazione. Lo scontro fu al tempo stesso un ulteriore segnale della crescita della Resistenza ellenica e la riprova che le truppe italiane non erano più in grado di controllare quella zona della Grecia a loro assegnata dall’alleato nazista. Per far fronte alle crescenti difficoltà, pochi giorni prima, il 3 febbraio, il comandante dell’XI armata generale Carlo Geloso aveva impartito l’ordine di passare alla rappresaglia senza fare distinzione fra combattenti e popolazione civile, considerati un unico indistinto blocco nemico da distruggere con le armi del terrore e della guerra totale.

Le direttive del comando trovarono puntuale applicazione dopo lo scontro sulla strada Larissa-Elissona. A poca distanza dal luogo dell’azione partigiana, sorgeva il villaggio di Domenikon, 300 abitanti, in maggioranza contadini poveri e un gruppo di aromuni, una minoranza che parlava una propria lingua dedita alla pastorizia. Il tempo aveva portato le due comunità a convivere e a costruire un equilibrio presto sconvolto dall’arrivo degli invasori. Infatti, ovunque giungesse, il fascismo si incuneava nei contrasti etnici per farli esplodere e giovarsene nella sua nefasta azione di dominio coloniale. Così, a Domenikon, i fascisti avevano insediato un capo villaggio aromuno e cercavano di usare questa comunità in funzione spionistica e collaborazionistica contro la Resistenza.

Una colonna mobile, composta da reparti della 24a Divisione di fanteria “Pinerolo” e delle camicie nere “L’Aquila”, investì come una furia il villaggio. A Domenikon non c’erano basi partigiane. La sua unica colpa fu quella di essere il più vicino al luogo dove si erano verificati i precedenti combattimenti. Agli occhi dei contadini terrorizzati, molti di quei militari si presentarono con l’aspetto di «soldati ragazzini», ma, ben presto, i greci appresero dolorosamente di quali nefandezze fossero capaci. Le povere case furono rapinate di quel poco che avevano, bombardate dall’aviazione e incendiate. Donne e bambini furono separati dai maschi che furono rastrellati e condotti a Damasi. Qui vennero torturati e, durante la notte alla luce dei fari degli automezzi militari, passati per le armi. Alcuni contadini prelevati dai villaggi vicini furono costretti a scavare due fosse comuni dove furono gettati i corpi. Alla fine si contarono circa 150 vittime, una cifra di certo inferiore a quella reale che potrebbe attestarsi sui 177 morti, perché fanti e camicie nere avevano continuato a uccidere gli sfollati incontrati durante la lugubre marcia della morte: venti «sudditi greci» per ognuno dei nove soldati italiani morti durante lo scontro con i partigiani. Il generale Cesare Benelli, che alla fine del massacro scrisse la relazione per il comando, definì con incredibile cinismo quella notte di sangue una «lezione salutare» per i sudditi greci.

La strage di Domenikon avviò il periodo più efferato e vergognoso dell’invasione fascista della Grecia. Infatti, nei successivi mesi di marzo e aprile, le truppe occupanti si resero responsabili della distruzione di circa duecento villaggi e dell’uccisione di centinaia di civili innocenti a Tsaritsani, Domokos, Farsala, Oxinià… Altri duecento villaggi furono devastati con l’appoggio dei tedeschi e la repressione finì solo con lo sfaldamento del regio esercito dopo l’8 settembre. La ferocia fu tale che lo stesso comando nazista, disturbato da una condotta così dissennata, fu indotto a protestare! Incredibile. L’intera regione della Tessaglia, il granaio della Grecia, fu messa in ginocchio da rappresaglie, saccheggi e requisizioni che scatenarono una sconvolgente carestia. Durante l’occupazione morirono per fame e malattie  fra i 200 e i 300 mila greci.

 

Finita la guerra, il villaggio di Domenikon fu ricostruito e ripopolato. Vicino a una delle fosse comuni dei martiri fu eretto un sacrario che ogni anno è meta del doloroso raduno dei superstiti che non hanno mai dimenticato né cessato di chiedere giustizia. Il governo greco decise di lasciare alla magistratura italiana il compito di punire i colpevoli, un compito quanto mai malriposto ma pienamente coerente con gli equilibri internazionali del dopoguerra.

In Italia, la strage di Domenikon rimase sconosciuta e questa cappa di silenzio durò per ben 65 anni. Del resto, anche in caso contrario, gli aguzzini di Domokos non correvano alcun rischio perché avrebbero potuto attaccarsi al salvagente lanciato dal governo italiano. Infatti, la condizione dei criminali di guerra italiani richiesti dagli altri stati fu sottoposta al giudizio preventivo di un’apposita Commissione d’inchiesta insediata nel 1946 e presieduta per gran parte della sua attività da Luigi Gasparotto. Questa commissione concluse i lavori nel 1951, in un clima politico completamente diverso da quello dell’immediato dopoguerra. Le accuse furono tutte respinte tranne che per 32 imputati comunque prosciolti per ragioni tecniche con la dichiarazione di non luogo a procedere nei loro confronti. Questa fu la giustizia dei governi DC. In una lista, compilata dalle autorità internazionali, di 1.500 accusati di crimini di guerra e contro l’umanità, non uno fu processato. Poterono morire tranquilli nei loro letti, più di uno dopo aver perseverato nella stessa opera eversiva condotta durante il fascismo e la guerra.

Le ragioni di questo infame colpo di spugna furono tutte politiche. In primo luogo, molti responsabili di crimini di guerra si erano inseriti in posizioni importanti della repubblica democratica nata dalla Resistenza. Avviarli a processo, equivaleva a riconoscere di fatto la continuità tra gli apparati fascisti e quelli dello stato del dopoguerra. Soprattutto, pesava la guerra fredda, la collocazione internazionale dell’Italia e la sua natura di paese a sovranità limitata. Non era possibile processare i criminali di guerra italiani senza procedere di pari passo contro i criminali tedeschi responsabili delle stragi naziste nel nostro paese. Tuttavia, questa elementare esigenza di giustizia cozzava contro due ostacoli insuperabili: l’impiego degli ex nazisti nella guerra fredda contro il comunismo e la ricostruzione della Germania ovest, tassello strategico del blocco atlantico.

Qui, nacque lo stretto intreccio delle due impunità, preoccupazione costante dei ministeri e dei governi degli anni ’50, fino arrivare nel 1956 al paradosso di un ministro democristiano della Difesa come Paolo Emilio Taviani, già membro del CLN ligure, che concorda con il collega liberale Gaetano Martino sull’opportunità politica di non chiedere l’estradizione degli ex ufficiali nazisti accusati dell’eccidio di Cefalonia. Due anni dopo, il governo italiano nominò al vertice della magistratura militare Enrico Santacroce che si trovò nelle mani tutto il materiale processuale relativo alle stragi naziste in Italia. In un solo giorno, il 14 gennaio 1960, Santacroce archiviò illegalmente ben 1906 di quei fascicoli processuali: un vero recordman dell’insabbiamento! Lì, a Palazzo Cesi rimasero dimenticati, ricoperti di polvere fino al 1996, quando il giornalista Franco Giustolisi li riportò alla luce con l’inchiesta sul cosiddetto “armadio della vergogna”.

Anche la cappa del silenzio su Domenikon iniziò ad alzarsi per merito di un giornalista nel febbraio 2008, quando, con un articolo di Enrico Arosio su “L’Espresso”, congiuntamente alla realizzazione del documentario di Giovanni Donfrancesco “La guerra sporca di Mussolini” e ai passi intrapresi dal procuratore militare Sergio Dini, l’orribile storia venne finalmente alla luce. Seguirono due distinti procedimenti della Procura militare che si conclusero sia il primo, di Antonino Intelisano nel 2010, sia il secondo, di Marco De Paolis nel 2018, con l’archiviazione. Passati settant’anni, i responsabili erano nel frattempo deceduti o rimasti ben nascosti. Analoga conclusione fu nel 2000 quella dei giudici greci di Larissa.

Il prof. Efstatios Psomiadis, nipote di uno dei fucilati e presidente dell’Associazione delle vittime di Domenikon, dopo aver ricevuto la comunicazione dell’esito del procedimento da parte del procuratore De Paolis, scrisse: «Purtroppo, però, la Sua lettera conferma ancora una volta il destino delle persone povere e semplici: nonostante abbiano ragione, questa non gli verrà mai riconosciuta.»

Non è una dichiarazione di resa. In Grecia, come in Italia, come ovunque nel mondo dove si siano consumate atrocità e ingiustizie, si continuerà a lottare.

 

Vincenzo Sinapi, Domenikon 1943. Quando ad ammazzare sono gli italiani, Milano, Mursia, 2021, pp. 232

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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