Vai al contenuto

FRANCESCO FILIPPI MA PERCHÉ SIAMO ANCORA FASCISTI. UN CONTO RIMASTO APERTO

Purtroppo, il conto rimane aperto. Un libro senza dubbio utile, questo di Francesco Filippi ma anche un’occasione mancata. Ma perché siamo ancora fascisti? – come suggerisce quel «Ma» iniziale – rappresenta la continuazione del discorso iniziato con Mussolini ha fatto anche cose buone. Edito nell’aprile scorso, in pieno lockdown, il nuovo saggio di Filippi parla di fascismo e antifascismo, questioni che, nonostante la negligenza dei media e della “politica”, rimangono quanto mai attuali e scottanti.

Il soggetto sottinteso e, al tempo stesso, i destinatari di quel «siamo ancora fascisti» sarebbero «gli italiani», o meglio, come l’autore precisa, «la “zona grigia” della coscienza storica del nostro paese». L’impresa appare quasi disperata, soprattutto per il “grigiore” dei potenziali interlocutori, per il terreno scelto e per il momento in cui viviamo, ma l’intenzione è lodevole.

Il libro è diviso in due parti. Nella prima – Cosa non è stato tolto di mezzo – Filippi  affronta alcune delle ragioni che hanno permesso a uomini e a pezzi significativi del passato regime di riciclarsi e radicarsi nella repubblica: le vicende della RSI e del Regno del sud, la mancata epurazione, il riassetto degli apparati dello stato, il sostanziale fallimento del tentativo di contrastare il neofascismo attraverso la legislazione, dalla XII disposizione della Costituzione fino alle leggi Scelba (1952) e Mancino (1993). Nella seconda parte – Cosa non è stato costruito – il libro analizza le narrazioni del fascismo che si sono sviluppate nel corso del periodo repubblicano. L’attenzione si concentra da un lato sulla cultura “alta” (le interpretazioni di Croce, Gobetti, Gramsci e Salvemini; il dibattito storiografico da Battaglia a De Felice e Pavone; la letteratura) e dall’altro lato sulla comunicazione e sulla produzione culturale di massa. Qualche cenno è dedicato alla scuola, alla canzone e al giornalismo, mentre maggiore spazio è riservato all’asfittico mercato librario (Fenoglio, Flaiano, Guareschi, Montanelli, Revelli, Rigoni Stern, Scurati ecc.), al cinema (Fellini, Lizzani, Pasolini, Rossellini, Scola ecc., ma anche la saga di Peppone e don Camillo e la commedia) e alla  televisione, dalla lunga egemonia DC all’incistarsi nell’etere di Mediaset e dei privati. Solo qualche rapida incursione è compiuta qua e là nell’ambito istituzionale (la formazione del MSI, la contrapposizione DC-PCI durante la guerra fredda, lo sdoganamento di AN e della Lega da parte del governo Berlusconi).

*

L’intero lavoro di Filippi è condotto dal punto di vista particolare di una storia della “mentalità” e si limita a individuare, sulla base dei risultati della ricerca storiografica, le punte emergenti del problema. Vedere raccolti, ordinati e allineati tutti insieme quei fatti con nomi, date e circostanze rinfresca la memoria e non lascia indifferenti. Infatti, l’impressione che si ricava dalla lettura è che, in Italia, il fascismo è così profondamente innervato nella società civile da condizionarne profondamente la mentalità, i comportamenti e i giudizi. L’impressione corrisponde al vero, ma è bene considerare che questo è il risultato di un processo storico – se vogliamo, l’esito di una battaglia – e che non è sempre stato così. C’è stata una lunga fase, che dalla Resistenza giunge fino alle soglie degli anni ’80, durante la quale l’antifascismo ebbe caratteri diversi da quelli descritti nel libro e, soprattutto, fu espressione ampiamente maggioritaria nella popolazione italiana. La guerra – non una guerra qualsiasi, ma una guerra totale – lasciò un’Europa di macerie. Il ricordo, la memoria, la mentalità o l’immaginario dei testimoni erano ben diversi da quelli che matureranno nelle generazioni successive. In questo ultimo mezzo secolo, sono intervenuti cambiamenti epocali che hanno investito, per esempio, le relazioni sociali, la natura del rapporto tra le generazioni o le modalità della comunicazione pubblica e privata, e che hanno contribuito in maniera significativa all’esito che Filippi così bene descrive e analizza.

Un’altra considerazione da non trascurare è rappresentata dal fatto che il problema non è solo nazionale. Ci si potrebbe altrettanto legittimamente chiedere: ma perché tanti tedeschi, polacchi, baltici o genericamente altri popoli europei, o addirittura alcuni italiani, siano «ancora» nazisti? Certo, qui il terreno si fa per lo storico diverso e più complesso, ma è fuori dubbio che ci troviamo di fronte a una tendenza che oltrepassa il Brennero. Il ventre che ha partorito la bestia immonda è ancora fecondo e non sembra proprio che quanto stia accadendo si possa annoverare fra i tanti inevitabili fastidi che una democrazia occidentale debba sopportare. D’altro canto, è opportuno tener conto che le specificità nazionali sono mutate di fronte ai processi di globalizzazione e che la storia di questo paese coinvolge ormai solo una parte della sua popolazione: le forze attive a cui è affidato il futuro, i giovani e gli immigrati il più delle volte non possiedono gli strumenti per comprenderne l’importanza, la ignorano o, peggio, ne hanno un’immagine falsa e nebulosa.

Non mancano nel libro passaggi che generano perplessità e punti importanti che non sono toccati. Per esempio, sarebbe stato essenziale precisare come il cosiddetto processo alla Resistenza risalga agli albori della repubblica. Quanti partigiani sono stati interdetti dall’apparato statale, licenziati dal loro posto di lavoro, minacciati, perseguitati, processati o addirittura fatti oggetto di attentati, incarcerati o costretti a espatriare  mentre gli assassini fascisti uscivano di galera e riprendevano i loro posti nell’economia, nella società e nella pubblica amministrazione? Forse non ha molto a che fare con una storia della mentalità, ma almeno un cenno a come sono stati costruiti i servizi di sicurezza e le forze dell’ordine della repubblica democratica si poteva fare. Dunque, prima della Resistenza furono processati i resistenti, intentando cause trasformate in eventi mediatici di ampia portata destinati a colpire l’immaginazione dell’opinione pubblica. Per esempio, fra i tanti, con tutta la loro devastante carica provocatoria, il processo Moranino oppure il processo Giubelli.

D’altra parte, si è continuato ad assolvere, riabilitare e a circondare di un’aureola mitica gli esponenti del passato regime, un’abitudine diventata modaiola con lo sdoganamento decretato dall’imperatore di Mediaset. Per esempio, colei che per decenni è stata la “Petacci” diventa al vezzeggiativo la struggente e fragile “Claretta” a cui Gervaso dedica una biografia e Squitieri un film e a cui segue un torbido torrentello di cronache, raccontini e biografie di “vinti”, di epigoni dannunziani, di fascisti più o meno critici, fascistelli, gerarchi e criminali di guerra. Nel castello di Novara, un tempo carcere ora spazio espositivo e culturale, furono incarcerati centinaia di antifascisti e, per qualche settimana nell’estate del 1943, la Petacci. Quanti conservano memoria delle sevizie subite dai partigiani e dai civili rastrellati e tenuti in ostaggio in quelle fetide celle, molti dei quali non hanno mai più rivisto il sole? E invece quanti visitatori chiedono oggi di conoscere dove nel castello “Claretta” fu detenuta, come fosse il balcone di Giulietta Capuleti? Allora, qui possiamo misurare il diverso peso nello sviluppo dell’immaginario della storia e delle storie cantate e romanzate che l’hanno rimpiazzata, spostando l’attenzione dalle responsabilità pubbliche dei personaggi e dal contesto in cui agirono alla dimensione intima e privata, in una notte nera nella quale tutte le vacche sono nere. Questa narrazione si è imposta facilmente anche per il disarmo e la marginalizzazione dell’apparato mediatico e culturale della sinistra: editoria, riviste e giornali, radio, cinema indipendente, musica, centri culturali e di formazione ecc.

Nel 1976, Einaudi diede alle stampe Autobiografia di un picchiatore fascista di Giulio Salierno, un libro che consente di apprezzare le differenze tra lo squadrismo del ventennio e il neofascismo, nel caso specifico quello romano degli anni ‘50. Le riflessioni di Salierno consentono anche di comprendere come il fascismo che si è annidato nei meandri della mentalità italiana non sia solo il risultato di un passato  che non passa, ma sia soprattutto l’esito di un passato che ha avuto e continua ad avere una precisa funzione politica. I “nostalgici” di un tempo non erano innocui e patetici laudatores temporis acti, bensì attori politici e sociali che hanno continuato a essere utili a se stessi e agli altri, fino al governo Tambroni e poi da Berlusconi in poi, sul piano istituzionale e, sempre, su quello extraparlamentare e illegale, dalle SAM dell’immediato dopoguerra, a Gladio, allo stragismo e oltre. Se i fascisti si sono stabilmente accasati in questo paese non è stato per una astratta e perversa dinamica delle idee, ma perché hanno avuto una loro utilità e funzione nell’esercizio di un potere politico che, per quarant’anni – diciamolo a chiare lettere, è stato ininterrottamente democristiano in un paese a sovranità molto limitata.

Alla fine, la domanda contenuta nel titolo del libro rimane purtroppo senza una risposta soddisfacente. La ragione è dovuta alla impalpabilità e alla inadeguatezza del concetto di “mentalità”, categoria interpretativa destinata a fornire esiti diversi se applicata, come lo fu egregiamente dagli “Annales”, al medioevo oppure alla complessità della storia contemporanea. Che cosa dobbiamo intendere, a proposito del fascismo, per “mentalità”? Quella maturata dalle popolazioni della valli biellesi oppure quella dei coloni dell’agro Pontino, quella dell’Emilia rossa oppure quella dei “boia chi molla”? Come giudicare l’effettivo impatto dei media sulla coscienza collettiva? Sono veramente indicative le copie vendute di un libro, lo share o i risultati del botteghino? E se invece di rivolgerci alle teche Rai, utilizzassimo le risorse archivistiche della oral history oppure la sconfinata produzione memorialistica dell’immediato dopoguerra, del tutto dimenticata, quale mentalità ne uscirebbe delineata? E ancora, qual è l’impatto dello spazio web e della virtualità che da circa un ventennio fanno parte stabilmente del nostro quotidiano? E la questione di genere? E il cosiddetto dibattito politico, indipendentemente dalla sua qualità, così come la progressiva liquefazione della tradizione socialista e picista non contribuiscono forse allo sviluppo della mentalità?

In definitiva, l’immagine che emerge dal libro è a due dimensioni, priva della profondità. La mancata defascistizzazione non fu, né avrebbe mai potuto essere, un processo neutro perché non è possibile rimuovere o ignorare i nessi tra fascismo e lotta di classe. Possiamo discutere sul nodo del rapporto fra struttura e sovrastruttura, nella piena consapevolezza che non si tratta di una relazione meccanica e deterministica, ma le classi esistono «in sé» e «per sé», non sono affatto un’aggregazione sociale come le altre e la lotta di classe esiste con le sue fasi alterne, con le sue impennate e i suoi riflussi carsici. Ed è proprio qui, in un percorso secolare, che dal diciannovismo agli scioperi del 1943, dalla guerra partigiana alla guerra fredda, dalla rivolta di Genova contro Tambroni ai funerali delle vittime di piazza Fontana e via rammemorando, ed è proprio qui nelle pieghe di un capitalismo grigio, straccione e gaglioffo, e nella particolare stratificazione sociale del paese che il fascismo ha sempre trovato e continua a trovare la sua ragione di esistere. Ed è qui che si ritrovano le radici profonde del successo di quella ideologia autoassolutoria degli «italiani brava gente», su cui giustamente Filippi ritorna più volte, una ideologia che puzza lontano un miglio di confessionale e che ripropone drammaticamente la questione della laicità.

Non possiamo chiedere ai libri ciò che non è in loro potere e, con i tempi che corrono, lavori come quelli di Filippi sono fiori che spuntano in mezzo a un prato impolverato e disseminato di immondizia. Tuttavia, pensare di contrastare la deriva in corso sui terreni della pacata discussione tra gentleman, della ragione e dell’etica senza riuscire a collegare questa battaglia alle dinamiche politiche e alla durezza della lotta economica e sociale è del tutto illusorio.

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
Privacy policy

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy