La ricorrenza della caduta del muro di Berlino ha avuto, a un migliaio di chilometri di distanza (tanti separano il nostro confine settentrionale dalla capitale tedesca), un eco mediatica a dir poco ossessiva. Purtroppo, dalle voci di molti cantori, che in questi giorni abbiamo sentito gorgheggiare inni alla libertà, è uscita più di una stecca e di una nota stonata. Difficile credere agli acuti e al candore di chi si scaglia contro la vergogna del muro di Berlino e poi chiude i porti o soffia sul fuoco del razzismo e dell’antisemitismo oppure, peggio, classifica i muri che frammentano l’umanità di oggi in “buoni” e “cattivi”. Come può gente senza vergogna, scandalizzarsi per la vergogna di un muro? Non è credibile.
E a proposito di miti della propaganda, perché dimenticare che il muro di Berlino, realizzato nel 1961, fu preceduto il 5 marzo 1946 dalla «cortina di ferro» di Wiston Churchill? La cortina non è forse quel tratto di mura fortificate compreso fra due torri o due bastioni, nel nostro caso l’Europa atlantista e gli Stati Uniti? Certamente il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy, con il suo famoso “ich bin ein berliner” del 26 giugno 1963, ha salvato le vite di molti abitanti della parte occidentale di Berlino. Tuttavia, chiediamoci anche: quante sono state le vite umane stroncate dal contemporaneo intervento militare degli USA nel Vietnam? Eppure, il ponte aereo di Berlino e le bombe sull’Indocina volavano esattamente con la stessa logica con l’aggravante che, in Germania, vivevano bianchi ariani, mentre, nel sud-est asiatico, quelli che in America erano chiamati, con tono tutt’altro che amichevole, «musi gialli».
Appunto, quello che colpisce delle celebrazioni di questi giorni, celebrazioni da parte di un establishment politico certamente molto carente in fatto di memoria storica, è il revival dei toni da guerra fredda. La differenza rispetto al passato è che il nemico, la superpotenza contro cui combattere, non c’è più o meglio appartiene alla storia. In questo modo, il ricordo della caduta del muro della vergogna è diventata una monocorde celebrazione della caduta del comunismo, del resto pienamente in linea con la recente deliberazione del parlamento europeo che passa la responsabilità della seconda guerra mondiale dalle spalle dell’unico legittimo titolare, un certo Adolf Hitler, su quelle di Stalin. Un autentico scippo. Insomma, è stato un momento di gloria per il revisionismo alla Stéphane Courtois, quello che sostiene che il comunismo abbia provocato almeno cento milioni di morti e non si è mai chiesto quanti ne abbiano provocati il razzismo, il colonialismo, il patriottismo nazionalista, l’imperialismo, il neoliberismo e, soprattutto, la stupidità. Quando si riduce la complessità dei fatti storici a improbabile contabilità, si finisce come lui nel Cercle de l’oratoire, la think tank strettamente legata ai conservatori dell’«America first!», a combattere contro l’antiamericanismo europeo e a sostenere le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq.
Proprio perché ci troviamo di fronte a questioni problematiche, non si può tacere che Berlino rimane un capitolo di una questione più ampia, quella del cosiddetto socialismo reale, con la quale la sinistra europea e la stessa sinistra comunista devono ancora fare i conti e trovare un terreno di ricomposizione teorica e pratica. Non si può dimenticare che un muro impedisce la comunicazione e la circolazione in tutte le direzioni e che, quando si costruiscono i muri, gli esiti sono in genere, dalla muraglia cinese al vallo di Adriano, quelli certificati dalla storia.
In ogni caso, un’acriticità, che ben rispecchia la pochezza del pensiero unico dominante, la mancanza di contestualizzazione storica, il deciso prevalere delle ragioni della propaganda spicciola e del marketing della politica hanno portato in questi giorni alla rimozione di tutti gli altri muri fisici, quelli esistenti e in costruzione – che certamente non sono un prodotto della “malvagità comunista” – dall’uno all’altro continente, dal confine messicano alla Palestina. Forse questi muri non sono anche loro infami muri “della vergogna”? Il muro di Berlino ha fatto 138 vittime ufficiali, ma quanti sono, per esempio, i morti di Gaza, quelli che cadono sotto il piombo dei soldati e dei bombardamenti, quelli che muoiono perché non arrivano in tempo in un ospedale, quelli che cadono ancora bambini? Non stiamo facendo dell’incerta contabilità alla Courtois, stiamo sottolineando l’impiego costante di due pesi e due misure, segno inequivocabile di malafede.
In ogni caso, il comunismo non nasce né tanto meno finisce col muro di Berlino. Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, orrendamente massacrati cento anni fa dal libero e democratico governo tedesco della repubblica di Weimar, avevano intitolato il loro movimento rivoluzionario a Spartaco. Non sappiamo se Spartaco fosse comunista, ma certamente la nostra storia è antica come la classe degli sfruttati che, nel loro cammino, hanno incontrato tanti muri. Il muro dei federati dove furono massacrati gli ultimi 147 comunardi, il 28 maggio 1871. I muri che circondavano i lager nazisti all’interno dei quali furono rinchiusi e uccisi per primi i comunisti. L’altro muro del partigiano garibaldino Lancia. Il muro della scritta invincibile di Brecht:
Al tempo della guerra mondiale
in una cella del carcere italiano di San Carlo
pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo:
viva Lenin!
Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma
scritto in maiuscole enormi.
Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce
e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.
Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri
ora c’è scritto nella cella, in bianco:
viva Lenin!
Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello
sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino,
quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta:
viva Lenin!
Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello.
E quello raschiò una lettera dopo l’altra, per un’ora buona.
E quand’ebbe finito, c’era nella cella, ormai senza colore
ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
viva Lenin!
E ora levate il muro! Disse il soldato.
Nell’ossessiva “damnatio memoriae”, a cui abbiamo assistito in questi giorni e a cui assisteremo in futuro, non può sfuggire un elemento importante. Il pensiero comunista continua a far paura ai suoi denigratori a qualsiasi sfumatura di sfruttatori appartengano. Il vecchio spettro continua ad aggirarsi per l’Europa. La caccia scomposta scatenata contro di lui non è solo il segno che il potere ha comunque bisogno, per perpetuarsi ed esistere, di creare un nemico, ma vuol dire che lo stesso potere sente di avere il fiato corto e teme il comunismo come il fuoco che cova sotto le ceneri, come la vecchia talpa di Marx che scava, scava bene e non smette di scavare.