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PARIGI VAL BENE UN MASSACRO

Cento anni fa la Conferenza di pace dopo la Prima guerra mondiale

«Rimpiango l’Europa dai parapetti antichi!», esclama il Battello ebbro di Rimbaud. Invece, di quella Europa, imperialista e borghese, ben poco c’è da rimpiangere. Per responsabilità sua, molto pianto risuona ancora per il mondo.
Cento anni fa, terminata la Grande guerra, si avviavano alla conclusione le trattative di pace, ma la Conferenza di Parigi segnava solo il proseguimento della guerra con altri mezzi nell’attesa e in preparazione di un inevitabile, e ancora più terrificante, secondo conflitto mondiale. La guerra del 1914-1918 fu una guerra totale e imperialista, per sua natura illimitata negli scopi e nei confini, come incontenibili e globali erano le ambizioni del capitale internazionale che l’aveva generata. Per questo, il fallimento della Conferenza di pace non poté essere più netto né più clamoroso. Cento anni dopo, molte ferite, allora aperte, continuano a sanguinare, i sistemi borghesi di rappresentanza e mediazione sono in affanno, ritornano le guerre economiche e riprendono vigore tensioni razziste e nazionaliste che solo gli ingenui potevano ritenere spente per sempre.
La Conferenza del 1919 fu preceduta dagli armistizi di Brest-Litòvsk e di Erzincan (15 e 18 dicembre 1917) tra i soviet, da una parte, il reich e l’impero ottomano, dall’altra. Interpretando il sentire dei popoli di tutto il mondo, la rivoluzione comunista aveva dimostrato che la guerra poteva avere fine. Seguirono gli armistizi di Salonicco il 29 settembre 1918 fra l’Intesa e la Bulgaria; di Villa Giusti, il 4 novembre tra Italia e Austria e di Compiègne tra Francia e Germania, l’11 novembre 1918.

Lo spettacolo della “pace”. Le trattative assunsero il carattere di un gigantesco evento di massa, con la presenza nella capitale francese di migliaia tra diplomatici, esperti, consulenti e giornalisti. Per avere un termine di confronto, seppure lontano nel tempo, quando, nel 1814-1815, si svolsero i lavori del Congresso di Vienna, la delegazione inglese, che rappresentava la massima potenza marittima mondiale, era formata da 14 persone. A Parigi, nel 1919, la sola delegazione statunitense contava 1300 tra esperti e funzionari. In tutto, parteciparono 27 delegazioni più quelle di Uruguay, Bolivia, Perù ed Ecuador, paesi che non entrarono in guerra, ma ruppero le relazioni diplomatiche con gli imperi centrali. Tuttavia, il colore della pelle contava e molto. Così, tra i vincitori, non trovò posto la Cina «che – scrive Martin Gilbert – pure aveva dichiarato guerra alla Germania nel 1917 e i cui operai erano ancora impegnati nell’attività di bonifica dei campi di battaglia, ripulendoli dal filo spinato e dalle granate inesplose».
Non furono ammessi, se non per la firma dei trattati, gli eredi degli imperi sconfitti, né la repubblica dei soviet.

Le dinamiche della Conferenza. I lavori partirono col piede sbagliato, perché, nonostante gli anatemi del presidente statunitense Wilson contro la diplomazia segreta, le 1646 sedute delle commissioni furono segrete, chiuse al pubblico, agli osservatori indipendenti e alla stampa. D’altro canto, mentre imperversavano un inverno di fame, freddo e sofferenze indicibili per i reduci e la popolazione civile, e la terribile epidemia di spagnola, la discussione procedette lentamente anche per ritardi, interruzioni e assenze di Wilson, che arrivò a Parigi solo il 14 dicembre 1918 e rientrò in patria tra la metà di febbraio e quella di marzo dell’anno successivo. Le decisioni furono assunte dai “quattro grandi”: il radicale francese Georges Clemenceau (1841-1929), il “Tigre” a cui fu affidata la presidenza della Conferenza; il democratico Wodrow Wilson (1856-1924); il primo ministro britannico David Llloyd George (1863-1945); l’italiano Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), rappresentante della potenza più meschina tra le grandi, destinata a un ruolo marginale e secondario durante i lavori. Il Consiglio supremo interalleato, o Consiglio dei quattro, dopo le dimissioni di Orlando e il rientro di Wilson negli USA, fu sostituito dal Consiglio dei capi delegazione, che durò fino al gennaio 1920.
Le questioni più importanti furono invece definite dal cosiddetto Consiglio dei Dieci formato, oltre che dai capi del governo, dai ministri degli Esteri di Stati Uniti, Robert Lansing (1864-1928); Francia, Stephen Pichon (radicale, 1857-1933); Gran Bretagna,
Arthur James Balfour (1848-1930); Italia, Sidney Sonnino (1847-1922); e da due rappresentanti del Giappone, che aveva dichiarato guerra alla Germania il 23 agosto 1914, occupando la regione dello Shandong, le Caroline, le Marianne e le Marshall.
Furono insediate numerose commissioni tra cui, il 25 gennaio 1919, la Commissione per la riparazione dei danni di guerra. L’entità delle riparazioni raggiunse cifre astronomiche sia per l’ostinazione della parte francese sia per l’aggiunta dei danni civili e del pagamento delle pensioni di guerra, richiesto con insistenza dai rappresentanti della Gran Bretagna. La Conferenza iniziò il 18 gennaio, anniversario di quel 18 gennaio 1871, quando, nella Galleria degli specchi di Versailles, fu umiliata la Francia di Napoleone il Piccolo e proclamato il reich guglielmino, e si concluse il 21 gennaio 1920. Le vendette sono anche simboliche, e non hanno mai fine, tanto che Hitler costrinse i francesi a firmare la resa il 22 giugno 1940 proprio nello stesso carro ferroviario e nella stessa foresta dove venticinque anni prima era crollato il precedente reich.

I dettati di pace. Alla fine, la gigantesca montagna della Conferenza partorì cinque mostruosi topolini, i trattati di pace, ma meglio sarebbe chiamarli col nome di “dettati” dal momento che furono imposti con la forza (le controparti non ebbero voce e furono chiamate unicamente ad apporre la loro firma): il Trattato di Versailles, sottoscritto nella Galleria degli Specchi dalla Germania, il 28 giugno 1919; il Trattato di Saint-Germain-en-Laye con l’Austria, il 10 settembre 1919; il Trattato di Neuilly con la Bulgaria, il 27 novembre 1919; il Trattato del Trianon con l’Ungheria, il 4 giugno 1920; il Trattato di Sèvres con gli eredi dell’impero ottomano, il 10 agosto 1920, rinegoziato dal Trattato di Losanna del luglio 1923.
La preoccupazione maggiore da parte dei “grandi” fu la necessità di fronteggiare l’avanzata della rivoluzione comunista. L’Europa era attraversata da tentativi rivoluzionari. In Baviera, era sorta la repubblica dei soviet. A Berlino, era scoppiata la rivoluzione spartachista. In Ungheria e in Finlandia, si erano sviluppati più ampi movimenti rivoluzionari. In Italia, era in corso il biennio rosso, culminato con l’occupazione delle terre e delle fabbriche. Le classi dominanti degli stessi Stati uniti erano sconvolte dal “red scare”, la paura rossa. Bisognava fermare a ogni costo l’ondata rivoluzionaria. Così, all’intensificarsi della repressione interna si accompagnò la creazione di un cordone sanitario anticomunista, che andava dalla Finlandia alla Romania, sui territori strappati dai tedeschi all’ex impero zarista. Nota lo storico inglese Martin Gilbert che il memorandum di Lloyd George, presentato a Fontainebleau il 25 marzo 1919, criticava la durezza dei provvedimenti imposti dalla Francia sulla Germania, perché «se non li si fosse in qualche modo placati, i tedeschi sarebbero diventati bolscevichi» e allora la Russia rivoluzionaria avrebbe potuto godere del loro appoggio, quello «dei più abili organizzatori di risorse nazionali esistenti al mondo».
Alla primaria esigenza di arginare la rivoluzione, si affiancò la resa dei conti con gli sconfitti e la necessità di soddisfare in qualche modo gli appetiti imperialisti dei vincitori e delle rispettive classi dominanti. Da qui, la colonizzazione economica della Germania, il riassetto geopolitico dell’Europa, del Medio e dell’Estremo Oriente, la spartizione delle colonie tedesche, la dolorosa vicenda di milioni di profughi provocata dagli spostamenti dei confini, l’improvvisa formazione di nuove fortune e il declino di antichi poteri. Il risultato fu l’emergere del revanscismo e di nuovi nazionalismi tanto più piccoli quanto più affamati, arrabbiati e bellicosi. Conflitti come la guerra nella ex jugoslavia, il secessionismo slovacco, baltico, moldavo, il contrasto tra ungheresi e rumeni sulla Transilvania, la situazione esplosiva del Medio oriente, i genocidi armeno e curdo, tuttora in corso, sarebbero stati semplicemente inconcepibili prima del 1914. Nota ancora lo studioso francese Jean-Baptiste Duroselle che la scomparsa dell’impero austro-ungarico creò «una sorta di vuoto al centro dell’Europa», mentre il mosaico di staterelli che circondava la Germania, creato a Parigi, ben lontano dal costituire un argine alla potenza tedesca, offriva «un allettante campo di espansione a un futuro imperialismo tedesco» hitleriano.
Quanto all’intento di evitare un futuro conflitto e di creare un sistema internazionale di sicurezza degli stati, il mustang di battaglia di Wilson, esso rimase un’illusione zoppa, travolta nel naufragio della Società delle nazioni, il cui “convenant” era stato solennemente inserito nel Trattato di Versailles.

Quell’imbroglio venuto da Princeton. La Conferenza di Parigi si risolse in un cozzare di appetiti imperiali e in un fallimento. Oltre agli aspetti già sottolineati, concorse non poco a questa clamorosa defaillance il confusionismo di Wilson, che decise di partecipare di persona alle trattative per fare sentire fino in fondo la posizione dominante assunta a livello mondiale dagli Stati Uniti.
Il presidente americano era un professore e veniva da Princeton, dove anni dopo, nel 1933, arrivò Albert Einstein. Come Einstein era dislessico, ma non possedeva né la genialità, né la linearità di pensiero, né l’umanità dello scienziato e filosofo tedesco.
In primo luogo, la new diplomacy wilsoniana pretendeva di interpretare i sentimenti nazionali di tutte le genti della terra, ma non godeva nemmeno del consenso del popolo e dell’establishment americani. Inevitabilmente, la posizione di Wilson s’indebolì col passare del tempo. Confermato alla presidenza degli Stati uniti nelle elezioni del 1916, già nelle elezioni di midterm del novembre 1918, gli si opposero camera e senato a maggioranza repubblicana e un solido blocco isolazionista e nazionalista, che, allora come oggi, gridava: America first! Di conseguenza, il trattato di Versailles fu respinto due volte dal Senato (19 novembre 1919 e 19 marzo 1920). Gli Stati Uniti firmarono una pace separata con la Germania con il Trattato di Berlino del 1921 e non aderirono alla Società delle Nazioni. Alla fine, le presidenziali del novembre 1920, diedero una maggioranza schiacciante al repubblicano isolazionista Warren Harding, che surclassò con 16 milioni di voti il candidato democratico, che ne ebbe solo nove, e segnarono il disastro finale del wilsonismo.
D’altro canto, il concetto di autodeterminazione (selfdetermination) di Wilson non possedeva certo la coerenza e la chiarezza del pensiero comunista, già enunciato in un noto articolo di Lenin del febbraio-maggio 1914. I soviet costruirono l’autodeterminazione dei popoli dell’Unione socialista. Gli idealisti inglesi e americani che sostenevano il principio di autodeterminazione non erano affatto disposti a concederla a indiani o egiziani, a neri o pellerossa.
L’ambiguità del pensiero wilsoniano risiedeva anche nel considerare presupposti dell’autodeterminazione non solo il criterio già di per sé nebuloso di nazionalità, ma anche la presenza di confini naturali e il rispetto delle esigenze strategiche dello stato. Da qui, la condotta contraddittoria di Wilson durante le trattative che lo condussero, per esempio, a favorire le pretese inglesi e francesi, a non muovere obiezioni all’annessione del Sud Tirolo, area di chiara nazionalità germanica, all’Italia e a costituire nell’Europa centrale un sistema di stati plurinazionali, perenne focolaio di infezioni nazionaliste e fasciste, oppure a non contrastare l’entità sproporzionata del pagamento dei danni di guerra. Senza parlare di tutta la partita coloniale, dalla questione dello Shantung, rivendicato da cinesi e giapponesi, fino ad arrivare ai mandati internazionali, il nuovo nome dato al colonialismo di sempre. Così, paradossalmente, il rappresentante della massima potenza imperialista, a Parigi, accusava di imperialismo l’Italia e senza nemmeno aggiungerci l’aggettivo “straccione”.
In apparenza, la nuova diplomazia wilsoniana entrava in contrasto con la dottrina Monroe, ma, in realtà, gli Stati uniti non modificarono affatto i loro comportamenti nei confronti del loro “cortile di casa”, dell’America meridionale e dell’area del Pacifico. In apparenza, l’universalismo wilsoniano si allontanava dall’isolazionismo consacrato nel «messaggio d’addio» di George Washington del 17 settembre 1796, ma, nel concreto, ne adottava tutto l’armamentario ideologico antieuropeo che considerava la politica del vecchio mondo al pari di un terreno di torbidi giochi e di sordida corruzione e assegnava al melting pot americano l’alloro della democrazia e della superiorità morale e politica.

Una pace tutta ariana. Nemmeno nel melting pot americano c’era posto per tutti: fuori gioco i pochi indigeni scampati al genocidio dell’Ottocento rinserrati nelle riserve, erano guardati con sospetto i latini e ne erano esclusi neri e gialli. Wilson era un gentiluomo del Sud e non faceva eccezione. Le sue posizioni apertamente razziste, se non suprematiste, sono note e la stessa direzione dell’Università di Princeton si è trovata di fronte recentemente alla richiesta di rimuovere il nome del presidente americano dall’intitolazione della facoltà di affari pubblici e internazionali. La decisione è stata quella di mantenerlo per «riconoscere – scrive l’ “Osservatore romano” – che Wilson, come altre figure storiche, lascia un’eredità complessa fatta di ripercussioni positive e negative»… Del resto, i razzismi sono come i virus influenzali: si differenziano in numerosi ceppi a seconda delle popolazioni infettate. Così, per esempio, nel 1919, gli americani della costa occidentale, diversamente da altri abitanti degli Sates, erano filocinesi ma ostili ai Giapponesi. Quanto alla Gran Bretagna, durante le guerre balcaniche che precedettero il conflitto mondiale, l’opinione corrente era che quelle popolazioni fossero dei barbari. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
In definitiva, l’autodeterminazione della Conferenza di Parigi non era per tutti.
Quando i giapponesi chiesero l’introduzione nello statuto della Società delle nazioni di un articolo che affermasse il principio dell’uguaglianza delle razze, la qual cosa entrava in contraddizione con gli ordinamenti statunitensi che proibivano l’immigrazione gialla e consentivano invece quella bianca, la scelta fu di barattare il principio con la concessione dell’ex possedimento tedesco dello Shantung al Giappone.
Quando il vietnamita Nguyen Ai Quoc (Nguyen il patriota), membro del Partito socialista, chiese di inoltrare ai delegati della Conferenza una petizione per l’autodeterminazione del Vietnam, per riaffermare l’uguaglianza giuridica tra colonizzatori e colonizzati e per abolire il lavoro forzato, tutte le sue proposte non furono nemmeno prese in considerazione dalla Conferenza. Fu la storia a risarcire Nguyen il patriota quando, assunto il nome di Ho Chi Minh, guidò il popolo vietnamita prima alla cacciata dei colonizzatori francesi, poi alla sconfitta delle forze armate più potenti del globo terracqueo e, infine, alla riunificazione del paese.
Nella Corea sotto il peso dell’occupazione giapponese, si sviluppò nel 1919 il cosiddetto movimento del Primo marzo che si richiamava esplicitamente all’autodeterminazione e ai principi di Wilson. La rivolta coreana fu soffocata nel sangue, né il presidente americano, a cui i ribelli guardavano con fiducia, mosse un dito.

Il proseguimento della pace con la guerra. In ogni caso, la Conferenza di Parigi non segnò affatto una fine delle ostilità. Le trattative proseguirono in mezzo alle deflagrazioni di guerre piccole e grandi, brevi e di maggiore durata.
All’atto dell’ultimo armistizio dell’Intesa con la Germania, i combattimenti proseguivano in Albania orientale da parte degli austriaci, in Africa orientale da parte dei tedeschi, in Afghanistan da parte delle truppe inglesi contro la rivolta delle popolazioni locali, in Anatolia, dove Mustafà Kemal Atatürk guidava una nuova guerra destinata a fissare i confini della Turchia moderna. Gli armeni, sopravvissuti al genocidio, non ebbero lo stato promesso a Parigi e la loro libertà fu di breve durata. Lo stesso diritto all’autodeterminazione, riconosciuto sulla carta, non fu mai attuato per le popolazioni del Kurdistan. La dichiarazione Balfour del 1917 poneva le premesse della colonizzazione sionista della Palestina, mentre venivano umiliate le promesse di indipendenza fatte dagli agenti dell’Intesa alle popolazioni arabe. Gli accordi di Parigi innescarono inoltre una miriade di rivendicazioni nazionaliste che sfociarono in continue violenze e tentativi di colpi di mano militari come a Fiume oppure, nell’area baltica, a Vilna e a Memel.
Eppure l’unica minaccia continuava a essere considerata la rivoluzione russa. Proprio nelle prime battute della Conferenza, era stato anche il ministro degli Esteri italiano Sonnino a caldeggiare un intervento militare degli alleati a fianco delle armate bianche. D’altro canto, la flotta inglese da guerra era già dal 1918 attivissima nel Baltico e il segretario di Stato inglese per la guerra, Winston Churchill, riavutosi dal disastro di Gallipoli del 1915, di cui era stato uno dei massimi responsabili, aveva rialzato la testa con protervia reclamando una spedizione militare contro i soviet.
La "Flotta Rossa degli Operai e dei Contadini" del nord era raccolta nell'unica base navale di Kronštadt ed era già era stata colpita da un primo attacco inglese il 16 e 17 giugno 1919. Nella notte tra il 17 e il 18 agosto, otto motosiluranti britanniche penetrarono nella rada di Kronštadt, affondarono un incrociatore e danneggiarono due vecchie navi da combattimento, perdendo però tre motosiluranti.
Furono queste le prime aperte ostilità a cui fece seguito l’invasione della forza multinazionale. La Russia bolscevica, dissanguata da circa tre milioni e mezzo di morti nella guerra appena conclusa – a cui bisognava aggiungere le vittime della fame, delle epidemie e di un sistema produttivo al collasso – fu attaccata da ovest in Europa e da est in Asia, all’esterno e all’interno dalle armate bianche filozariste, nazionaliste e controrivoluzionarie. Il tentativo di rovesciare la repubblica dei soviet si rivelò insostenibile sia per gli scarsi risultati, sia per la robusta reazione dell’Armata rossa sia per gli alti costi e, alla fine, si concluse con un fallimento e con il ritiro della forza multinazionale. Tuttavia, la guerra continuò con l’invasione dell’esercito polacco, che aveva oltrepassato l’incerta frontiera orientale nel febbraio 1919 e che continuò a combattere contro i sovietici fino al marzo 1921.
Il primo atto politico della repubblica polacca, una delle creature della nuova diplomazia di Parigi, fu una guerra di evidente impronta nazionalista che si proponeva di resuscitare la “Grande Polonia” del passato, cioè uno stato che rappresentava la negazione stessa del principio di autodeterminazione in nome del quale era nata.

Le armi della devastazione economica e della fame. John Maynard Keynes prese parte alla conferenza di Parigi in qualità di consulente del Cancelliere dello scacchiere (cioè del ministro inglese delle Finanze e del Tesoro), ma si dimise per protestare contro l’andamento delle trattative e, nello stesso anno 1919, pubblicò un libro destinato a suscitare ampia eco: Le conseguenze economiche della guerra. L’economista britannico riteneva che il compito principale della Conferenza fosse quello di rilanciare l’economia. Invece, le delegazioni dei paesi vincitori avevano ben altre preoccupazioni e non avevano esitato a ricorrere ai mezzi più ignobili per ottenere i loro scopi. Il maresciallo Ferdinand Foch aveva minacciato una spedizione militare contro la Germania se i rappresentanti di Weimar non avessero firmato il trattato di Versailles. Gli inglesi invece mantennero, come strumento di pressione contro la Germania e l’Austria, il blocco navale attuato dal marzo 1915. Le conseguenze del blocco furono aggravate dal sequestro delle locomotive tedesche e dalle condizioni disastrate del sistema dei trasporti e degli approvvigionamenti. Si calcola che i soli civili tedeschi uccisi dal blocco inglese siano stati più di 750.000. La città di Vienna, una delle più popolose e vitali capitali europee, era alla fame e al freddo. Fu una strage attuata con fredda determinazione e feroce crudeltà che non poteva lasciare indifferenti. La verità sull’entità della catastrofe riuscì a farsi largo tra i clamori dei nazionalismi e le misure di censura e di restrizione delle libertà ancora in atto.
Le reazioni vennero da parti diverse.
Nel maggio 1919, intervenendo a sua difesa durante il processo in cui era accusata di aver violato la legge inglese, Eglantyne Jebb sostenne che «Se la guerra è davvero finita (…) anche il ruolo del Real Arma Act è da considerarsi esaurito. Altrimenti, contrariamente a quanto dichiara il governo, «si sta ammettendo, di fatto, che la guerra è ancora in corso» e che «il blocco navale continua a essere una delle nostre armi principali». Di fatto, nasceva in questo modo Save the children, dapprima come raccolta di fondi da destinare alla Croce rossa e ad altre associazioni che agivano a sostegno delle popolazioni civili degli ex imperi centrali, poi come organizzazione autonoma. Save the children sorse dunque in una situazione di aperto conflitto politico da matrici differenti, in parte socialiste ma anche umanitarie e liberali, ottenendo da subito l’appoggio di Robert Smillie, leader della federazione dei minatori, e dei lavoratori inglesi.
Intanto, anche Norman Angell Lane, futuro nobel per la pace nel 1933, aveva definito il blocco un’arma puntata «contro i bambini, i deboli, i malati, i vecchi, le donne, le madri, i decrepiti» e ci fu un deciso intervento del Vaticano. Benedetto XV invitò più volte i cattolici a mobilitarsi per salvare i bambini, prese ad esempio proprio l’azione svolta da Save the Children e diffuse in proposito due encicliche la Paterno iam die, del 24 novembre 1919, e Annus iam plenus, del 1 dicembre 1920. Il gesto del papa, ricordato per aver definito la guerra una «inutile strage», era motivato anche da esigenze politiche, non ultima la preoccupazione per la scomparsa dell’Impero austro-ungarico, tradizionale baluardo cattolico contro i protestanti e gli ortodossi.
La guerra aveva smagliato l’intera rete della solidarietà internazionale. Il movimento femminile e femminista era stato scompaginato. I nazionalismi avevano spezzato i legami che si stavano tessendo tra gli scienziati e gli uomini di cultura dei diversi continenti. Quanto alla Seconda internazionale, era sprofondata nella vergogna delle votazioni a favore dei crediti di guerra e del sostegno al patriottismo nazionalista dei diversi paesi in conflitto. Le Conferenze di Zimmerwald e di Kienthal avevano posto le premesse per una ripresa dell’internazionalismo e nella stessa direzione agivano prepotentemente sia l’esempio dell’Ottobre russo sia l’inarrestabile sete di pace dei contadini e degli operai. Per questo, quando i socialisti viennesi e le autorità austriache lanciarono un appello per salvare i bambini della capitale austriaca, dove mancava tutto dal cibo al combustibile, la risposta della solidarietà internazionale fu pronta e commovente. Migliaia di bambini, il futuro della città, furono posti sui treni della fratellanza diretti in diverse parti dell’Europa: Svizzera, Olanda, nella stessa Germania, Danimarca e paesi scandinavi. Oltre seimila di quei bambini giunsero in Italia, a Bologna, Reggio Emilia, Milano, ma anche Novara e molti altri centri minori dove il Partito socialista e le organizzazioni operaie e contadine procurarono loro rifugio, cibo e il tepore dell’ospitalità presso una famiglia proletaria. Fu una pagina nobile scritta dal nostro popolo, ma anche la continuazione di una tradizione antica quella che vedeva svilupparsi la solidarietà proletaria e la tutela dell’infanzia nei confronti delle famiglie in difficoltà e quella di classe che aveva visto i bambini dei braccianti di Parma, che si preparavano a sostenere l’epica battaglia del 1908, oppure, nel 1911, i figli dei “serrati” di Piombino trovare rifugio e protezione presso le famiglie socialiste della pianura Padana.
Nel marzo 1919, nasceva la Terza internazionale di Lenin, e si andava rimagliando il tessuto della solidarietà internazionalista con lo sviluppo di organizzazioni come il Soccorso operaio internazionale e, per volontà dell’Associazione dei Vecchi bolscevichi, il Soccorso rosso.

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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