Noterelle sull’ideologia italica
Alla degenerazione del sistema politico corrisponde un pari degrado della comunicazione e del linguaggio. L’attuale ceto politico si distingue infatti anche per la rozzezza e la miseria culturale e linguistica. Quell’attenzione alla parola e quell’aspirazione a modelli culturali e comportamentali “alti”, di status, che avevano animato buona parte della borghesia italiana dal secondo dopoguerra in poi, non servono più. Una volta, il padrone era tale perché conosceva mille parole, mentre l’operaio ne masticava a malapena un centinaio. Ora, chi comanda parla come un ultrà della curva o come un avventore del bar. Un tempo si diceva: “Parla come mangi”. Oggi questa richiesta è pienamente soddisfatta da ministri, alti funzionari, onorevoli, manager, esperti, professionisti della politica e della comunicazione mediatica, spin doctor e think tank del potere. L’obiettivo è stato raggiunto. La bocca e la pancia costituiscono finalmente un unico armonioso tubo del tutto libero dalle antiche servitù nei confronti del cuore e della critica razionale. E quello che entra da una parte, esce dall’altra. Siamo al verbipancismo.
Quando nelle assemblee del trascorso ciclo di lotte si incontravano operai e studenti, scappavano nel fuoco della discussione la bestemmia, la “parolaccia”, la
sgrammaticatura, la battuta in dialetto e la platea esplodeva perché quel parlare pubblico era liberatorio, era uno schiaffo all’ipocrisia che dominava le relazioni formali, era una ricomposizione tra il mondo reale della classe e quello dell’intelletto, era il rifiuto di un arido nozionismo e di un ammuffito purismo che offuscavano la conoscenza. Ed era veramente un piacere sentire discutere con una competenza oggi inimmaginabile un vecchio contadino socialista, un muratore anarchico, una tessitrice o un metalmeccanico aggiogato alla catena di montaggio di Vietnam e di Cile, di inflazione e di salario, dell’istruzione dei figli o dell’assistenza sanitaria, di Marx e di Gramsci, dell’aprile 1948 o della crisi internazionale del 1956 che soffiava impetuosa da Suez a Budapest, insomma di tutto. Molti di quei discorsi erano indubbiamente precari e poveri da un punto di vista formale tanto che erano ricorrenti i moniti rivolti agli “intellettuali” a svolgere la loro funzione sociale, cioè a educare ed esprimere concetti difficili in maniera comprensibile (appunto: «Parla come mangi!») e, dall’altro lato, era feroce il sarcasmo di una destra binariciuta, che si riteneva guardiana del sapere tradizionale, contro i mostruosi comunisti “trinariciuti” (se non altro, respiravano meglio).
Dunque, è stata la sinistra che ha innescato quel processo che ha portato ai disastrosi esiti attuali? «Parla come mangi!» ha sempre avuto lo stesso valore? Certamente, no. Senza entrare nel merito di questioni complesse come lo sviluppo dei mass media, il loro cronico asservimento al potere politico ed economico, l’evoluzione del sistema scolastico, le tecnologie digitali, ecc. vanno messe in rilievo alcune differenze di fondo tra ieri e oggi.
Prima di tutto, le classi subalterne esprimevano una cultura autonoma, non sempre progressista ma senza dubbio di classe. L’espressione linguistica, sconvolta dalle tragedie delle guerre mondiali, dall’esperienza migratoria e dal conseguente incontro con altre lingue, era sostenuta dalla robusta intelaiatura sintattica e lessicale dei dialetti, lingue a tutti gli effetti e strumenti privilegiati nella comunicazione quotidiana. Esisteva una coscienza collettiva prodotta da secoli di lotte agrarie e almeno da un secolo di sviluppo industriale. La memoria e l’oralità avevano un ruolo fondamentale nella comunicazione e nella formazione personale, familiare e civile. Le organizzazioni operaie e contadine producevano cultura, erano in grado di contrapporre la loro informazione a quella del potere ed esprimevano i loro gruppi di intellettuali. La curiosità intellettuale, l’arricchimento culturale e linguistico, anche negli aspetti minimi dell’insegnamento scolastico o della formazione da autodidatta o della semplice lettura del giornale, erano considerati strumenti di emancipazione di cui impadronirsi. Ognuno percepiva la presenza di una soglia tra il registro linguistico dell’osteria e quello della vita e aveva piena consapevolezza che l’ignoranza esiste, lotta contro di noi e, da pessima consigliera qual è, produce disastri.
Questo, e tanto altro, c’era nel «Parla come mangi!» di un tempo. La svolta è stata negli anni Ottanta del secolo scorso con la drammatica chiusura del ciclo di lotte del dopoguerra, con le derive del revisionismo e del craxismo, con l’emergere del sistema di potere berlusconiano, con tangentopoli, con lo sdoganamento del neofascismo e con tanto altro. Quegli anni furono anche l’incubatoio del verbipancismo.
Quello che rimaneva delle culture subalterne è stato spazzato via o emarginato. La lingua nazionale ha quasi completamente annientato i dialetti. Oggi, il dialetto sopravvive in situazioni di nicchia o tra i componenti delle organizzazioni criminali dove esprime i legami delle mafie con il territorio e con le condizioni sociali che le hanno prodotte. Nel frattempo, quell’italiano standard, televisivo e mediatico, ha imboccato una china discendente di impoverimento lessicale e caos morfo-sintattico aggravata dalle più bizzarre contaminazioni provenienti dalla lingua imperiale dominante, l’inglese. Il significato della parola si fa incerto se non aleatorio, mentre la sua forma, il significante, si impone per le suggestioni musicali, emotive, per vaghe assonanze irrazionali e “magiche”: una vera orgia di vecchie utopie letterarie decadenti dal simbolismo al formalismo, dal futurismo alle avanguardie. La conoscenza, il confronto dialettico, l’ascolto e la riflessione, l’inchiesta e lo studio sono vissuti con fastidio, un fastidio a cui i burattinai della comunicazione di massa hanno subito offerto un mitico capro espiatorio: l’élite! La battaglia delle idee si riduce a una babelica rissa verbale fra tifosi. L’ignoranza diventa la più preziosa delle virtù. La lingua non è più strumento di miglioramento ma di alienazione, veicolo degli aspetti negativi dell’ideologia, quando si fa pregiudizio e prefigurazione della realtà.
La comunicazione orale diretta serve sempre meno. I nonni di un tempo narravano la straordinaria avventura della loro vita. Si restava a bocca aperta ad ascoltarli. I nonni di oggi che cosa dovrebbe mai raccontare ai pochi nipoti che si aggirano spaesati in mezzo a una popolazione invecchiata e inaridita? L’ultimo black friday? Le mirabolanti offerte dell’ipermercato sottocasa? La solitudine e le fobie generate da un apparente benessere? Di quello straordinario cantante o campione sportivo o ballerina di cui, tra poco tempo, nessuno ricorderà più il nome? Dell’ultimo viaggetto “mordi – fuggi – inquina” con la tale agenzia turistica?
La dimensione sociale e collettiva è stata smantellata, le grandi organizzazioni popolari sono implose o sono state inglobate nel regime, la politica istituzionale si è pienamente americanizzata nella forma e corrotta nella sostanza. La selezione del personale politico è puramente casuale: una fedina penale non proprio immacolata, aver prestato servizio come nano, come ballerina o come portaborse del potente di turno, come comico o cantante fallito o persona di spettacolo fanno curriculum e cursus honorum.
Ci ripetono continuamente che le ideologie sono morte e sepolte. A guardarsi in giro, a sentire i peggiori luoghi comuni del bar, dello stadio, del razzismo, del nazifascismo, del maschilismo, dell’integralismo religioso, dell’anticomunismo si direbbe invece che le ideologie sono tutt’altro che scomparse, anzi godono di buona salute. Per nostra disgrazia, appaiono vincenti, sostenute in maniera ossessiva da un potente apparato mediatico professionale, solo le peggiori, mentre i nostri modelli di vita sono diventati schiavi di un’unica e devastante ideologia che è il pensiero unico del mercato, del consumo e dell’impresa.
Il verbipancismo in questo modo è cresciuto ed è ben ingrassato. Si è seduto sul trono del nuovo senso comune di una società in disfacimento e svolge la funzione essenziale di frammentare e dividere gli oppressi, di dare loro l’illusione che regime e opposizione siano la stessa cosa e che le distanze tra il potere e il popolo siano state annullate.
«Parla come mangi?»: appunto: guardiamo quello che “mangia”, e soprattutto quanto “mangia”, la classe dominante al potere (che il verbipancismo chiama “populista” o “sovranista”). Quanta nostalgia per i casti forchettoni democristiani!