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MARKALE, IL “MERCATO DELLE STRAGI” DI SARAJEVO

di Marco Travaglini

Vječna Vatra è la “fiamma eterna”, al centro di Sarajevo, all’angolo tra la Maršala Tita e Fehradija, la via pedonale principale del centro storico. Quella del memoriale alle vittime militari e civili della seconda guerra mondiale e ai partigiani, si dice sia l’unica fiamma che non si è mai spenta nemmeno sotto l’assedio.
È un monumento dall’alto valore evocativo. La lapide ricorda una data, il 6 aprile del 1945. Il giorno della liberazione della capitale bosniaca dall’occupazione nazista e della vittoria di serbi, bosniaci e croati che insieme riconquistarono la libertà. Insieme, uniti come le dita di una mano chiusa a pugno per resistere e colpire sotto le insegne dell’esercito partigiano di Tito.
La dimostrazione visiva di una lotta comune, segnata dall’antifascismo degli slavi del sud. Poi, dalla Vječna Vatra si va in direzione del mercato di Markale. La strada è breve: neanche il tempo di tirare il fiato e compare la piazza con i banchi di ferro e di legno del coloratissimo mercato della frutta e della verdura. Come in tutti i
mercati c’è un via vai di gente. Donne anziane e ragazze si aggirano con le loro sporte tra cassette colme di patate, cetrioli e zucchine, peperoni rossi e verdi, sedano, mele e pere, gialli limoni, lunghe carote di un arancio sfolgorante, melanzane dai riflessi violacei, cipolle e lunghe trecce d’aglio. Per non parlare dei funghi e delle varietà di frutta secca. Si rimane storditi dall’effluvio di profumi e dall’esplosione dei colori. Il vociare fitto è la colonna sonora di questo luogo d’incontro dove si chiacchiera, si ascoltano gli inviti dei venditori a comprare i loro prodotti, le domande curiose di chi, prima di scegliere, vuol sapere, soppesare, valutare la convenienza tra la merce e il prezzo. Nei mercati c’è vita e quello di Sarajevo non fa eccezione. Non si dovrebbe far molta fatica ad immaginare cosa poteva essere questo luogo d’incontro durante l’assedio sul finire degli anni ’90, con le poche cose offerte a prezzi da mercato nero, pagate a prezzo d’oro o scambiate per sigarette. Negli occhi di molti si nota ancora quel velo di tristezza e di dolore accumulati negli anni degli stenti e della guerra. In fondo al mercato, lungo la parete, una lunga lapide rossiccia ricorda i caduti delle stragi di Markale.
Sì, stragi al plurale, poiché per due volte le granate serbe hanno massacrato i civili in questo mercato, nel cuore antico di Sarajevo. La prima volta, il 5 febbraio del 1994: 67 morti e 142 feriti. La seconda, il 28 agosto 1995, quando l’ultimo di cinque colpi di mortaio causò la morte di 37 civili e il ferimento di novanta. Adriano Sofri era là, quel giorno di febbraio del 1994. Così lo racconta: «Arrivammo in mezzo alla strage, cominciavano appena a raccattare i corpi e i feriti. C’era un rumore terribile di pianti, di urla, di richiami concitati, di auto caricate alla rinfusa che sgommavano via. C’era una gamba artificiale, staccata e diritta sul suolo. C’erano scarpe, è incredibile come le scarpe si spandano nelle carneficine. C’erano uomini grandi e grossi che soccorrevano e piangevano a dirotto. Toni Capuozzo si buttò nella falcidie, io non seppi fare niente. Da giorni avevo adottato, e viceversa, una banda di ragazzini che faceva capo a quella piazza del mercato. Avevo appuntamento con loro là, ogni giorno fra le tre e le quattro. Conoscevo ormai quasi una per una le persone del mercato, le vecchie che vendevano calzettoni fatti a mano e bacche selvatiche, il bambino che vendeva a malincuore un gallo, i vecchi che vendevano rubinetti e distintivi e medaglie, le fioraie: ero il più prodigo compratore di fiori della città. Anche quando mancavano il pane e le candele, a Sarajevo le case avevano voglia di fiori; e poi tutti avevano qualche tomba fresca alla quale destinare un fiore. I morti di Markale furono 68, i feriti nessuno li ha contati».
È necessario, a questo punto, raccontare qualcosa in più, oltre il sangue, l’odore della morte, il fumo tra le macerie. È la storia di una seconda violenza, quella del tentativo di rimuovere, nascondere, negare. Quello del mercato di Sarajevo è un caso tra i più clamorosi. Bisogna tener conto, innanzitutto, che quella guerra fu seguita dai media come mai era accaduto prima e come mai accadde dopo. Per diverse ragioni, quella bosniaca fu una guerra che entrò direttamente nelle case di tutti e in tutto il mondo. Le immagini erano in presa diretta, senza filtri. I giornalisti potevano documentarla fino nei minimi particolari sia con i mezzi moderni della tecnologia sia con quelli tradizionali degli inviati che, taccuino alla mano e reflex al collo, rischiavano del loro sulla front line. E poi, diciotto anni fa, i giornalisti erano più liberi di fare il proprio lavoro, non erano “embedded” come al giorno d’oggi. “Embedded” è una parola inglese che, applicata ai giornalisti, equivale a dire che quest’ultimi sono “incastrati” nell’esercito, che si muovono solo con le truppe, con l’impossibilità di informarsi da fonti che non siano quelle dei comandi militari (in uno studio di una università americana, su 750 articoli presi in esame le fonti in “divisa” rappresentavano l’unica voce nel 93 % dei casi). Risulta evidente come questo voglia dire che oggi, agli inviati di guerra, è concesso di vedere, sentire, filmare e trasmettere solo quello che conviene alle gerarchie militari che li hanno autorizzati. In Bosnia la realtà stava lì, sotto gli occhi di tutti. C’erano le prove, sanguinanti e urlanti. Nessuno poteva dire di non sapere. «In centinaia sono andati in Bosnia Erzegovina come inviati di guerra – scrive Azra Nuhefendic – Giravano ovunque pareva loro, guardavano, toccavano, filmavano, registravano, vivevano con gli accerchiati, soccorrevano le vittime, entravano nelle città assediate, brindavano con i criminali, dibattevano con presidenti, ministri, generali, osservavano i bombardamenti dalle posizioni di tiro. A Sarajevo alcuni giornalisti si appostavano nei luoghi dove, solitamente, i cecchini uccidevano i passanti, o dove si faceva la fila per qualcosa. Sapevano che prima o poi potevano filmare la morte in diretta. A volte addirittura veniva offerto “un assaggino”, come è successo al mio collega e amico che lavorava per l’agenzia AP a Belgrado. Mi raccontava che, quando visitava le posizioni dei serbi sopra Sarajevo, gli offrivano grappa e anche, se gli faceva piacere, di “sparare un po’ sulla città». Nonostante l’enorme mole di testimonianze dei sopravvissuti, un’infinità di libri, le innumerevoli fosse comuni scoperte e aperte, le tonnellate di documenti sui quali si basano le sentenze del Tribunale dell’Aja, c’è chi cerca di negare tutto, di ricostruire le vicende con la menzogna, di distorcere le verità documentate. Un cumulo di menzogne per tentare, in modo maldestro ma insidioso, di ricostruire la storia, modificando i fatti e ribaltando le responsabilità. Ecco allora la leggenda macabra – di matrice serba e cetnica – secondo cui i bosniaci musulmani «si uccidevano da soli». Un “argomento” utilizzato spesso quando si parla del massacro al mercato di Markale.
In questo caso le autorità serbe negarono ogni responsabilità, accusando il governo bosniaco di aver bombardato la propria gente per suscitare lo sdegno internazionale e il possibile intervento NATO. Nel caso della seconda strage, l’allora presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, affermò che a Markale «è stato tutto una messa in scena e una frode». Non solo. Inviò una lettera ai presidenti di Russia e Stati Uniti, Eltsin e Clinton, affermando: «Dalle immagini TV si vede chiaramente che i cadaveri sono stati manipolati, e che tra i ‘cadaveri’ ci sono anche pupazzi di stoffa e plastica». Un giornalista serbo bosniaco, Risto Džiogo, andò oltre, ricostruendo in modo vergognoso lo scempio del mercato. Nello studio della televisione di Pale, dove lavorava, mise per terra dei pupazzi di plastica e di stoffa sdraiandovisi accanto e fingendo di essere uno dei serbi morti che sarebbero stati utilizzati nella messa in scena a Markale. Ma già dal giorno dopo delle prime granate perse avvio il martellamento del regime di Slobodan Milošević e dei media serbi contro «il complotto bosniaco», producendo «spiegazioni» e svelando i «retroscena» del massacro. Ovviamente, autoassolvendosi. Nel marzo del 1995, il ministero dell’Informazione della Repubblica di Serbia produsse un documento intitolato “Dossier Markale Market” nel quale gli autori spiegavano che la «auto-vittimizzazione» dei musulmani proveniva dalla stessa «mentalità islamica» e che faceva parte dell’assioma per cui «è un onore morire per l’Islam». Puro razzismo e spregevole menzogna, ovviamente. Ma, a forza di menzogne e di propaganda, s’insinua il tarlo. Si citarono documenti segreti, si pubblicarono «prove storiche». Venne chiamato in causa un testimone ( rigorosamente anonimo), pronto a giurare che «la notte prima del massacro sul mercato sono stati portati i cadaveri, e che la maggior parte dei feriti musulmani proveniva dai campi di battaglia di Mostar e Vitez». Ancora Azra Nuhefendic, giornalista bosniaca che vive e lavora a Trieste: «Come a cerchi concentrici queste affermazioni, ripetute varie volte, aumentavano e si diffondevano nel tempo e nello spazio. Un quotidiano di Belgrado, “Kurir”, nel 2009, scriveva che i servizi segreti albanesi del Kosovo «possiedono una copia del piano dei bosniaci che prova la teoria secondo cui la strage di Markale fu tutta una messa in scena del governo di Sarajevo». Il Presidente della Republika Srpska, Milorad Dodik, ogni tanto riattizza il mito e ripete che «la strage di Markale è stata una messa in scena, come anche la strage dei giovani a Tuzla». Persino Radovan Karadžić, nel suo processo davanti al Tribunale dell’Aja, non perse l’occasione per stare zitto e ripeté quello che diceva all’epoca in cui guidava il governo di Pale: «Il massacro al mercato di Markale 2 è stato organizzato dalle forze governative bosniache, e la maggior parte dei corpi ritrovati erano vecchi cadaveri e manichini». Ma davvero i «bosniaci si sparavano da soli»? In un rapporto sulla seconda strage di Markale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha concluso che «tutti e cinque i proiettili erano stati sparati dall’esercito della Republika Srpska». Davanti al Tribunale dell’Aja è stato documentato che, nel caso della prima strage, «il colpo di mortaio, senza alcun ragionevole dubbio, è arrivato dalle posizioni dell’esercito dei serbi bosniaci». L’ex capo degli affari civili delle Nazioni Unite in Bosnia, David Harland, davanti all’Aja , ha testimoniato che lui personalmente aveva suggerito all’allora comandante delle Nazioni Unite, Rupert Smith, «di fare una dichiarazione neutra» per non allarmare i serbo bosniaci, che sarebbero stati in questo modo avvisati degli imminenti attacchi aerei della NATO contro le loro posizioni.
«Se avessimo puntato il dito contro i serbi, le truppe dell’UNPROFOR, stazionate nel territorio sotto il controllo dell’esercito serbo bosniaco, potevano essere esposte ad attacchi di rappresaglia», ha spiegato Harland. Questa versione venne confermata dal generale Rupert Smith davanti al Tribunale dell’Aia e in un suo libro. Smith ha sostenuto che già allora (ndr. 1995) aveva una relazione tecnica secondo cui «al di là di ogni ragionevole dubbio il proiettile era arrivato dalle posizioni dell’esercito serbo bosniaco». E sui musulmani che si sparavano da soli? Confermando di aver sentito queste voci, dichiarò che «nessuno mai mi ha dato una prova di ciò». Ovviamente, verrebbe da dire. Intanto, due generali serbi, Dragomir Milošević e Stanislav Galić, sono stati processati e condannati, rispettivamente a 33 anni di carcere e all’ergastolo, per l’assedio e il bombardamento di Sarajevo, comprese le stragi di Markale. C’è chi ancora dà credito al grido di “al lupo, al lupo”, di matrice serba. Dove, evidentemente, il lupo è bosgnacco. È ignoranza, pigrizia nel cercare la verità, menefreghismo, voglia di rimuovere tutto perché tanto i morti sono morti? Può darsi. Ma chi ha responsabilità politiche, chi fomenta il nazionalismo, che insiste sulle falsità non lo fa per ignoranza, ma per uno scopo ben preciso. Azra Nuhefendic , in un bell’articolo, parlando di questo, cita George Orwell: «Il linguaggio politico è progettato per rendere la bugia veritiera, l’omicidio rispettabile, e per dare al vento un aspetto solido». Il mercato, intanto, si sta svuotando. I banchi sono tristi, senza la merce. Un vecchio ritira le sue patate in una cassetta e un altro – avranno la stessa età? – rovista tra gli scarti della verdura alla ricerca di qualcosa da buttar in pentola. È un’istantanea della città che ha bisogno di normalità, ma sente sulle spalle la fatica e la stanchezza del passato.

Marco Travaglini

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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