Vai al contenuto

QUATTRO NOVEMBRE, CENTO ANNI DI LUTTO

Lo psicanalista statunitense James Hillman ha contato dai primordi dell’umanità fino all’epoca attuale 14.600 guerre. Di certo, fino al 1918, nessuno di questi conflitti fu così terribile e devastante come la Grande guerra.
Sul solo fronte italo-austriaco – una linea di combattimento d’importanza assai limitata in un cozzo di giganti delle dimensioni del reich tedesco, dell’impero britannico, della terza repubblica francese, dell’autocrazia zarista e e dell’impero ottomano – in tre anni e mezzo di guerra, furono uccisi oltre un milione e trecentomila soldati. Nel 1925, l’economista Giorgio Mortara censì 651.000 morti italiani. Altrettanti furono i cadaveri nel campo austro-ungarico.
I numeri, oltre che poco significativi (come si fa anche solo a immaginarsi un milione di morti!), sono ampiamente in difetto sia perché stime successive più puntuali portano i morti italiani già sulle soglie dei 700.000, sia perché bisognerebbe aggiungere le vittime di altre nazionalità. Senza contare poi che circa centomila fra trentini e giuliani, combatterono sul fronte orientale nell’esercito asburgico ed ebbero le loro vittime. Questi italiani non hanno avuto l’umana pietà dell’Italia “vincitrice”, sono rimasti senza volto, ricacciati come ombre e fuggiti come appestati, mentre i reduci di quel fronte sono stati accolti dalla patria con persecuzioni e disprezzo durante tutto il ventennio fascista e oltre. Nonostante la guerra del 1915-1918 sia considerata la prima guerra “totale”, non ci sono nemmeno delle stime sulle vittime civili che furono centinaia di migliaia: morti per fame, di stenti e malnutrizione, per le malattie, per il freddo a causa della carenza di combustibili, per la devastante pandemia di spagnola, per i numerosissimi incidenti sul lavoro nelle fabbriche ausiliarie, per abbandono, per lo sgretolamento delle famiglie, per la miseria, per l’inefficienza dell’apparato statale. E poi, con l’arrivo della tanto attesa pace, bisognerebbe tener conto della sorte dei feriti, dei mutilati, dei tubercolotici di guerra, dell’impatto dell’etilismo di ritorno, degli orfani, delle vedove, dei profughi, di coloro che in trincea persero il lume della ragione, insomma un tunnel senza fine di orrori all’interno del quale ancora oggi, dopo un secolo, ancora si aggirano con il lanternino dei ciechi quelli che parlano di “vittoria” e di “patria”.
L’Europa della Grande guerra aveva una popolazione di 400 milioni di abitanti, il 24,2 % della popolazione mondiale di allora. Oggi, l’Europa conta 730 milioni di abitanti, ma il suo peso demografico è crollato al 12,2%. Se agli albori del Novecento ogni quattro abitanti del pianeta c’era un europeo, cento anni dopo, tale rapporto è diminuito a uno ogni dieci. Nello spazio di qualche decennio, tra una generazione o poco più, le previsioni calcolano che l’Europa scenderà a circa 600 milioni di abitanti, poco più del 6% della popolazione globale. Il che vuol dire che il vecchio mondo scomparirà dalla scena politica mondiale, si ridurrà a un teatro secondario, con il sacro idolo del PIL ridotto a percentuali poco attraenti, con un mercato ancor meno interessante per i cosiddetti grandi investitori, mentre nessuno stato europeo sarà più in grado di mantenere la propria poltrona nei G7. La cruda spietatezza dei numeri mette a nudo l’ipocrisia e la colossale falsificazione che si nasconde dietro al risorgere dei peggiori nazionalismi riverniciati da “sovranismo”: inventare parole nuove per nascondere i soliti vecchi e lerci contenuti è un vecchio trucco della propaganda nazifascista di sempre.
L’accelerazione del declino dell’Europa inizia proprio quel 28 luglio 1914, quando la nave asburgica Bodrog apre il fuoco su Belgrado segnando l’inizio dei combattimenti. In quella guerra, e nel conflitto del 1939-1945 che ne fu l’inevitabile conclusione, la borghesia europea ha incenerito ingenti risorse accumulate in secoli di sfruttamento della classe operaia e delle colonie e con esse una posizione non più dominante come un tempo ma ancora solida nell’imperialismo mondiale. Insieme ai germi della terribile spagnola, la guerra diffuse bacilli ancora più pericolosi: l’annullamento delle libertà e delle garanzie costituzionali, l’autoritarismo, il militarismo, la repressione brutale di ogni forma di dissenso, l’Union sacrée destinata a strangolare la II Internazionale, il silenzio colpevole degli intellettuali, il sonno della ragione, lo sfruttamento bestiale del lavoro, la dittatura del grande capitale industriale e finanziario – in Italia anche di quello agrario – , un modello di stato antidemocratico, antioperaio e dispotico di cui saranno continuazione i regimi fascisti europei del periodo compreso tra le due guerre.
Il sordo boato della guerra fu coperto da un’esplosione ancora più forte: quella della rivoluzione bolscevica del 1917. La presa del potere dei soviet degli operai, dei contadini e dei soldati ebbe un ruolo determinante nell’interruzione del conflitto. La «pace senza annessioni e senza indennità» voluta a ogni costo dai comunisti non solo fermò sul fronte orientale il massacro di quei popoli che nel conflitto ebbero il numero più alto di morti, non solo dimostrò che era possibile deporre le armi, non solo mise gli stati maggiori, i governi e le classi dominanti degli altri stati di fronte alla consapevolezza dell’impossibilità di continuare la guerra fino all’estremo, non solo mise sotto la pelle dei potenti della terra la paura del contagio rivoluzionario e il terrore di perdere il loro potere, ma rinnovò la prospettiva dell’internazionalismo, dell’unione e della rivolta di tutti gli sfruttati, a qualsiasi paese appartenessero, contro i loro oppressori, di qualsiasi nazionalismo fossero espressione. Con le conferenze di Zimmerwald e di Kienthal furono poste le basi della nuova internazionale dei lavoratori e Lenin, col saggio L’imperialismo fase suprema del capitalismo, affrontò il nodo teorico fondamentale dell’economia politica contemporanea.
Il futurista, l’incendiario Marinetti, finito poi accademico dell’Italietta fascista, nel 1909 celebrava «la guerra – sola igiene del mondo». Nel 1918, i risultati di quella «igiene» erano sotto gli occhi di tutti: a presidiare i sacri confini delle patrie, erano rimasti, imprigionati in agghiaccianti sacrari, eserciti interi di morti, turbe di reduci storpi, mutilati e inebetiti affollavano le strade, uomini, donne e bambini ridotti a larve, un ceto medio impoverito, disperso e spaesato, un trauma collettivo insanabile; dall’altra parte, i “pescicani”, i nuovi ricchi, i veri imboscati, gli spostati, gli ammalati di cinismo, di prepotenza, di violenza, di manie di grandezza. Il maggiore risultato della guerra fu solo un’umanità più sofferente, più malata, sfruttata e povera.
Non c’è dunque nulla da festeggiare in questo quattro novembre, così come non c’era nulla da celebrare nei novantanove anniversari che lo hanno preceduto.

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
Privacy policy

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy