Martedì 12 giugno, la maestra Flavia Cassaro è stata licenziata dall’Ufficio scolastico del Piemonte. Per antifascismo. La memoria va agli anni della prima guerra mondiale, quando furono confinati, incarcerati ed espulsi dalla scuola gli insegnanti pacifisti e internazionalisti. O ancora alle vergogne del ventennio fascista durante il quale maestre e maestri antifascisti furono aggrediti e percossi, umiliati e talvolta uccisi davanti ai loro scolari, perseguitati fin nell’intimità delle loro case, processati dal tribunale speciale e infine privati del lavoro e gettati sul lastrico. O ancora al periodo dello strapotere democristiano e clericale con le sue virulente campagne contro il «culturame» e la repressione contro tutte quelle forme di libertà pedagogica – tutelata dall’art. 33 della Costituzione – e di pensiero per qualsiasi motivo sgradite a preti e a plenipotenziari scudocrociati.
Se possibile, nel licenziamento di Flavia – di per sé una mostruosità giuridica –, c’è qualcosa di ancora più grave: la motivazione non riguarda infatti il suo comportamento sul posto di lavoro, che non è mai stato oggetto di contestazione da parte dei superiori, ma la sua vita di privata cittadina, i suoi comportamenti al di
fuori degli orari, degli impegni e dei doveri scolastici, in definitiva la sua militanza antifascista.
I fatti sono noti. Le istituzioni della repubblica antifascista nata dalla Resistenza, come spesso avviene, autorizzarono una manifestazione neofascista in un albergo del centro di Torino lo scorso 22 febbraio. Gli antifascisti di una città medaglia d’oro della Resistenza scesero in piazza per protestare. Flavia ha avuto la sorte di finire davanti a una telecamera mentre da sola, in mezzo alla piazza, fronteggiava la polizia schierata a protezione dei neofascisti. Agli idranti, agli scudi e ai manganelli dei poliziotti ha opposto la sua voce disarmata, il suo sdegno e le sue parole.
In un povero Paese, nel quale la peggiore violenza verbale, la minaccia, il vilipendio, l’oltraggio, l’ingiuria fine a se stessa, il cinismo e la volgarità contro chi non ha voce o non può difendersi sono diventati merce quotidiana dello spettacolo, dell’audience e della comunicazione, a qualche povero video-untorello le parole di Flavia devono esser parse una buona occasione per fare lo scoop. Le immagini hanno iniziato così a circolare vorticosamente, naturalmente del tutto decontestualizzate, ed è stato proprio Matteo Renzi per primo, in diretta dagli studi di Matrix (quale tribunale più adatto?), a processare Flavia e a chiederne il licenziamento, subito inseguito e, al solito, superato su questo limaccioso terreno dal ministro Fedeli e dalla canea dei numerosi amici del perbenismo, delle forze dell’ordine e dei neofascisti, tutti offesi dall’insulto alla divisa.
Sono bastati quattro giorni lavorativi, per la sospensione di Flavia dal servizio e un iter-lampo, conclusosi con l’insediamento del nuovo governo, per sancire il suo licenziamento a decorrere dal 1 marzo. A due pesi e due misure, beffa doppia, se si pensa ai decenni durante i quali si sono trascinati, senza nulla concludere, i processi sulle stragi fasciste e se si pensa all’assoluta impunità con cui dalla cattedra altri docenti spargono generosamente ai loro alunni odi xenofobi, veleni razzisti, fobie qualunquiste, sciocchezze securitarie e asinerie sovraniste. D’altra parte, nessun insegnante è stato mai nemmeno ammonito per la sua appartenenza o militanza in gruppi nazifascisti. Per costoro, fuori dalla scuola, ci deve essere la totale libertà di vomitare insulti su tutti e su tutto, buon senso e verità compresi. Per costoro, fuori dalla scuola, ci deve essere la licenza assoluta di augurare la peggiore morte a migranti, ebrei, omosessuali o avversari politici o di fare aperta apologia del fascismo.
Il licenziamento di Flavia porta con sé tutti i germi infetti di un totalitarismo strisciante, liquido e puzzolente, che si insinua sotto le nostre scarpe come per strada le deiezioni del miglior amico dell’uomo. Uno di questi germi è rappresentato dalla pericolosa sovrapposizione tra azione penale della procura e azione disciplinare del datore di lavoro. Che un datore di lavoro (in questo caso la scuola che, per di più, si identifica con lo stato) si permetta di giudicare la «continenza formale» del diritto di critica e la gravità della «condotta» privata di un suo dipendente, mentre è in corso un’indagine della procura (altro organo dello stato) per istigazione a delinquere, oltraggio a pubblico ufficiale e minacce, è una condotta assai inquietante. La vita dei lavoratori della scuola al di fuori del posto di lavoro non può né deve essere soggetta alla discrezionalità dell’istituzione scolastica. Gli insegnanti devono essere giudicati per le loro qualità umane e professionali nello svolgimento della loro opera educativa. Punto e basta.
In caso contrario, si configurerebbe il ruolo di un insegnante a sovranità limitata. Si tornerebbe all’inquisizione sulla moralità della persona, tanto cara a dittature, autoritarismi, integralismi e grandi fratelli di tutte le epoche. E questo avverrebbe dopo decenni durante i quali il pensiero unico neoliberista, l’ideologia dell’impresa e, per ultima, la famigerata legge 107 renziana hanno desertificato e svuotato la scuola italiana. In definitiva, non è casuale che Renzi e Meloni siano stati perfettamente concordi nel linciaggio mediatico e politico di Flavia. Pensate: la maestra di un quartiere popolare, tra l’altro con una gloriosa storia di lotte alle spalle, come la Falchera contro il gigantismo dei media, dei maxischermi e dei loro guru che si ergono imponenti, titanici a condannare, senza possibilità di appello. Non c’è proporzione, è come sparare sulla crocerossa. Tuttavia, bombardare l’ambulanza può essere controproducente. I palestinesi hanno conservato anche i resti delle loro ambulanze distrutte e, ne siamo certi, quei rottami insanguinati pesano sulle spalle degli oppressori più di una battaglia persa.