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SENZA CHIEDERE PERMESSO. MEMORIE OPERAIE A MIRAFIORI / Reprint

Una boccata di ossigeno, il film di Pietro Perotti e Pier Milanese. Un documento unico che restituisce voce, giustizia e dignità alle decine di migliaia di operai che furono protagonisti delle lotte in quella che è stata la più grande fabbrica metalmeccanica d’Europa. “Avrei voluto esserci”, è stato il commento di un ragazzo che ha partecipato a una delle proiezioni del film organizzate da Proposta Comunista. È la conferma di quanto le ragioni della ribellione al capitale non solo siano sane ma anche molto contagiose. Per questo, su di una formidabile stagione della lotta di classe è calato il cordone sanitario di un impenetrabile muro di gomma. Padron Agnelli e i suoi eredi in maglione di cachemire sono vendicativi. Non hanno perdonato a quella classe operaia di aver messo a nudo le loro meschinità e l’hanno condannata al silenzio. Il pensiero (oddio, la parola è grossa…) unico craxiano e berlusconiano, fino all’ultima variante renziana, hanno eseguito la sentenza della damnatio memoriae. Negli stessi archivi della RAI, il famoso servizio pubblico, sono spariti filmati e ampex che documentavano quelle lotte quando invece sono custoditi con le più amorevoli cure i gorgheggi del quartetto Cetra. Quella sì che è storia! Volete mettere?

Una vita operaia. Se l’emancipazione della classe operaia dev’essere opera della classe operaia stessa, anche la memoria dei lavoratori dev’essere la loro coscienza e la loro soggettività. E Senza chiedere permesso è prima di tutto la narrazione di una vita operaia, di un ragazzo che, come il Marcovaldo di Calvino, lascia la provincia rurale per la grande avventura nella metropoli industriale.
Pietro Perotti nasce nel 1939 a Ghemme, un piccolo centro delle colline novaresi, nello stesso anno in cui Mussolini, accolto dal gelo di 50 mila lavoratori, inaugura Mirafiori. Pietro inizia a lavorare a 11 anni come garzone di panettiere. Nel 1955, il primo salto: è assunto alla Filatura Crespi. Il salario, come in tutte le fabbriche tessili, è a dir poco modesto. In compenso, le condizioni di lavoro sono dure e nocive. Si respira polvere sempre e ovunque. Scorrono sullo schermo le immagini del carnevale di Ghemme del 1956, un carnevalino di provincia ma benedetto con un vino generoso e allietato dai carri di arte povera, costruiti un pezzo per volta nelle cascine da operai e contadini dopo una giornata di lavoro. Il carnevale, si sa, è il rovesciamento del mondo. E infatti, in quegli anni, grandi cambiamenti sono nell’aria. “Lascio papà Crespi che mi dà solo il pane per andare da mamma FIAT che mi dà anche il salame”, scrive su di un cartello Pietro quando decide di licenziarsi dalla filatura per andare a Mirafiori. È il luglio del 1969. In fabbrica e fuori, le lotte operaie stanno veramente rovesciando il mondo. Il fascismo aziendale di Valletta, buono anche per la repubblica democratica, i reparti confino, la feroce repressione antisindacale degli anni ’50 appartengono la passato. Come se in fabbrica non avessero valore le leggi italiane, rimane nei reparti un regime poliziesco. Ci sono le schedature FIAT, che saranno poi materia di un epico processo con l’indimenticabile Bianca Guidetti Serra, ma i guardioni fanno sempre meno paura. Il paternalismo straccione degli Agnelli non funziona più, è ormai senza fiato. Quanto all’orgoglio aziendale, a cui parte della maestranza era molto attaccata, quello l’aveva già ridicolizzato Olivetti e, quando un dipendente FIAT doveva fare il confronto, non gli rimaneva, come dice Laura Curino, che “ingobbirsi” per la vergogna. In ogni caso, Adriano Olivetti era morto nel 1960 e, in segno di lutto, la città di Ivrea aveva sospeso il carnevale.
Protagonista di questo ribaltone è un nuovo operaio. Qualcuno l’ha definito operaio-massa. Lo genera la catena di montaggio, duro come il metallo delle scocche e tagliente come gli stampi delle presse, forgiato da un’intensità mai prima raggiunta dai processi di sfruttamento e di alienazione sul lavoro. L’intelligenza e la creatività operaie scavano nelle debolezze e negli anfratti dell’organizzazione “scientifica” del lavoro. Sono i lavoratori a conoscere sulla loro pelle, più dei tempisti e dei quadri e meglio dei tecnici e dei dirigenti, il cuore della produzione. Costruiscono le loro difese psicologiche individuali e collettive. Costruiscono insieme un processo di presa di coscienza e di sapere operaio che ben presto sovrasta il rumore insopportabile del chiuso dei reparti, dilaga nei quartieri, esplode a piazza Statuto, aggrega strati sempre più ampi della società. Così, giorno dopo giorno, cresce, accanto alla ragione, la forza dei lavoratori. Per tutti, la linea diventa l’università della lotta. Il profitto ha generato i suoi più irriducibili antagonisti. Lo racconta Giovanni Falcone, una delle avanguardie di quella stagione di lotte, un emigrante dalla Campania che, giunto a Torino, non riusciva nemmeno a dire una parola e che poi si riappropria della lingua e i suoi discorsi diventano pietre che vanno a colpire direttamente il nocciolo dell’ingiustizia e del potere capitalista.

1980: crash test. Non c’è stato un Antonio Gramsci nella grande lotta della FIAT del 1980, ma questo non basta a spiegare un esito non molto lontano da quello dell’occupazione delle fabbriche del settembre 1920.
Tutto era iniziato il 9 ottobre 1979 col licenziamento di 61 avanguardie di fabbrica. Alla fine degli anni ’70, i processi di ristrutturazione erano ormai generalizzati e la classe operaia sulla difensiva, fortemente indebolita. Questo fu il momento scelto dalla grande impresa e da una politica corrotta e corriva per l’attacco finale. Nel luglio 1980, la FIAT mandò a casa duemila invalidi accusati di assenteismo. Il 5 settembre, l’amministratore delegato Cesare Romiti annunciò la messa in cassa integrazione per 18 mesi di 24 mila lavoratori FIAT e, una settimana dopo, l’ 11 settembre, 14.469 licenziamenti. Dopo 35 giorni di lotta operaia durissima col blocco dei cancelli e della produzione, il 14 ottobre, la FIAT mobilitò guardioni, capireparto, tecnici, impiegati e quadri intermedi che, prima, si rintanarono nel teatro Nuovo e poi sfilarono silenziosamente per via Roma contrapponendosi agli operai in sciopero.
Sono poche migliaia. La questura li valuta generosamente, al clou della manifestazione, attorno ai 12 mila, una piccola minoranza rispetto agli 80 mila di Mirafiori, minuscola di fronte all’universo sterminato del gruppo FIAT. A questo punto, entra in scena la macchina mediatica. Al pomeriggio, esce l’edizione di “Stampa Sera” che parla di 20 mila manifestanti. All’indomani, per “La Stampa”, il quotidiano di Agnelli, sono saliti 30 mila, ma sarà la… progressista “Repubblica” a fissarne definitivamente la leggenda in 40 mila, come se a Mirafiori ci fosse un colletto bianco ogni tuta blu! Nemmeno l’organizzatore della manifestazione, il caporeparto Luigi Arisio, fu così spudorato e, obnubilato dall’entusiasmo, giunse a parlare di un massimo di 30 mila partecipanti. Arisio fu ricompensato da Susanna Agnelli con un posto in parlamento e da Ronald Reagan con una cartolina di congratulazioni. Lui parlava dell’ondata migratoria alla FIAT, dove gli immigrati erano chiamati i napoli, come di una “infezione” che avrebbe contagiato la purezza e la salute dei barot, gli operai piemontesi. A suo modo, Arisio fu un precursore di quella barbarie politica e civile destinata a mutare in peggio i connotati dell’Italia nell’ultimo ventennio del Novecento. I suoi due figli sono finiti in cassa integrazione alla Coamu e alla FIAT nel 2009…
Subito dopo la marcia dei “quarantamila”, il pomeriggio del 15 ottobre, l’assemblea dei delegati FIAT si riunisce al cinema Smeraldo. Il sindacato è mobilitato ai massimi vertici per imporre ai lavoratori un accordo che segna una resa senza condizioni all’azienda. Ci sono tutti: Pio Galli, Enzo Mattina e la trimurti di Lama, Carniti e Benvenuto. L’indomani mattina, 16 ottobre, sotto la pioggia si tengono le assemblee dei lavoratori delle Carrozzerie, delle Presse e delle Meccaniche. I fotogrammi del film, relativi all’assemblea delle Meccaniche, documentano l’esito del voto: favorevole all’accordo per una piccola minoranza di capi e impiegati, appiattiti in fondo sotto le pensiline, e contrario per la marea operaia del piazzale. Ancora più netto il risultato al turno successivo, ma la direzione sindacale è già volata a Roma per firmare. Negli anni seguenti, rimane il lento stillicidio dell’espulsione dei cassintegrati. Più di 150 di loro, per la disperazione, per il senso di inutilità che li angosciava, si suicidarono. In fabbrica, gli operai erano sempre di meno e i robot sempre di più. Il grandioso ciclo di lotte operaie degli anni ’60 si chiudeva per sempre. Come disse Angelo Caforio all’assemblea dello Smeraldo, con quei 24 mila licenziamenti, fu decapitata la classe operaia.
Per quanto certi confronti vadano condotti con molta cautela, gli aspetti del 1980 che rimandano alle lotte di 60 anni prima sono parecchi. In entrambi i casi, da una sconfitta epocale della classe operaia derivò un lungo periodo di degrado sociale ed economico del Paese; un imbarbarimento civile e culturale; un netto peggioramento delle condizioni di vita dei ceti proletari e un incremento dei profitti del capitale; il mutamento della natura del sindacato in direzione concertativa; la fine della democrazia consiliare; una sostanziale perdita di identità di una rappresentanza politica dei lavoratori, peraltro già inadeguata; una drammatica scissione politica della sinistra, seguita dalla sua lenta consunzione. Altrettanto rimarchevoli sono le differenze tra i due momenti. Se non altro, nel 1980, non c’era nessun processo rivoluzionario, paragonabile all’ottobre dei soviet, in corso o in prospettiva a cui ancorare una forma di resistenza.
Molto si discusse nei giorni infuocati della lotta e in quelli successivi. Ne scrisse lo stesso Perotti che, con Marco Revelli, pubblicò nel 1986 per il Centro di ricerca e iniziativa comunista di Torino, FIAT autunno 80. Per non dimenticare. Immagini e documenti di una lotta operaia. Poi, tutto cadde nell’oblio. Non si ritorna volentieri con la mente sulle sconfitte. Eppure sarebbe il caso di riprendere il filo di quella riflessione, se non altro per sottrarre quella gloriosa lotta a giudizi del tutto fuorvianti o a quelli irridenti di qualche scalzacane neoliberista. Se Senza chiedere permesso, otterrà almeno in parte questo risultato, avrà raggiunto un obiettivo importante.

Pietro Perotti, la lotta di classe come arte. Pietro Perotti si licenzia dalla FIAT il 25 aprile 1985. In 16 anni di lavoro e di lotta, ha accumulato una straordinaria esperienza nel campo della comunicazione operaia: dai graffiti agli adesivi; dai manifesti ai giornali; dall'Agnellone di cartapesta fino al grande ritratto di Marx che è rimasto appeso alla porta 5 fino alla fine. Aveva investito il salario di qualche mese per acquistare una Microflex dell’Agfa Gevaert e le pellicole in super8 e aveva iniziato a filmare le lotte. Con quel materiale realizzerà nel 2000, con Pier Milanese, un primo documentario, intitolato Fiat. Autunno ’80, della durata di ’40, prodotto dall’Associazione Emilio Pugno.
Proprio nel settembre 1980, Pietro rivede davanti a Mirafiori Piero Gilardi mentre crea un gran testone di Agnelli con la gommapiuma. Gilardi è uno scultore, un artista noto, uno dei pochi rimasti solidali col movimento operaio. Ha attraversato l’esperienza dell’arte povera, è interessato ai processi di creazione collettiva e di animazione di base, ha sperimentato nuovi materiali. Anche Giulio Turcato, negli anni ’60 e ’70, ha plasmato materiali poveri, tra cui la gommapiuma per dare tridimensionalità alla composizione, ma, davanti alla mitica porta 5, in mezzo ai lavoratori in lotta, le ragioni e le energie creative sono di tutt’altro segno. Per Pietro, veder lavorare Gilardi è una rivelazione: «È stata la svolta, mi ha cambiato la vita. Sono venuto in contatto con un materiale versatile, elastico, leggero, che ha caratteristiche quasi umane. Un materiale magico». Il primo lavoro è del 1981, al Teatro Tenda nello spettacolo di Stefano Benni Circo Italia a sostegno dei cassintegrati FIAT. Esordiscono l'elefante Spadolone, il gorilla Pietro Longo, il nano Fanfani e un nuovo Agnellone non più di cartapesta ma di gommapiuma.
Da allora, Perotti non ha più smesso di lavorare questo materiale. Dopo il licenziamento da Mirafiori, è diventato il suo modo di lottare come artista-artigiano, con la manualità, con l’ingegno e con quella capacità tutta proletaria di sbeffeggiare i potenti. Certo, la gommapiuma è facilmente deperibile e si sbriciola con facilità sotto la luce, il caldo, lo smog, ma plasmabile e flessibile, al tempo stesso potente e inafferrabile, è il materiale più adatto alla vecchia talpa che continua a scavare discretamente. Dopo aver ben scavato, ritorneranno giorni di felicità
allora, al posto della coperta, ci metteremo un bel maglione di cachemire…

SENZA CHIEDERE PERMESSO. MEMORIE OPERAIE A MIRAFIORI
2015
Un film di Pietro Perotti e Pier Milanese
Musica a cura di Franco Ranghino
Riprese super8 di Pietro Perotti, Vincenzo Elafro, Sergio Lupini e Franco Giovannini; riprese digitali di Pietro Perotti, Monica Affatato, Alessandro Costanza e Daina Pupkeviciute; riprese amatoriali di Piercarlo De Vecchi e Carlo Olivero.
Disegni di Carlo Minoli
Montaggio di Pier Milanese
Color correction e mix audio di Paolo Favaro
Graphic design di Mattia Temponi
Produzione esecutiva per FIOM: Giorgio Airaudo, Vittorio De Martino, Federico Bellono e Luciano Pregnolato
Produzione esecutiva per Cinefone: Luciano D’Onofrio
Regia di Pietro Perotti e Pier Albanese

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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