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LA PELLE NERA DEL PARTIGIANO / Reprint

Da qualche anno la Liberazione è diventata una festa multietnica e sempre più colorata. Si tratta di una conseguenza dell’immigrazione, ma c’è anche qualcosa di più profondo. L’Italia ha un passato coloniale che, in quanto a ferocia e rapina, non teme confronti con altri imperialismi. Non c’è differenza tra le vittime innocenti degli eccidi nazifascisti in Italia e le popolazioni massacrate dai gerarchi fascisti nelle colonie italiane. Allo stesso modo, gli africani che si batterono contro le guerre coloniali fasciste sono accomunati, in dignità e spirito di libertà, con i partigiani e i civili che contrastarono l’invasione nazista e il vile collaborazionismo repubblichino. Tra di loro c’è una figura gloriosa e indimenticabile: il partigiano nero Giorgio Marincola.
Sarà pur vero che i governi liberali prima e il fascismo poi si avventurarono nella colonizzazione quando le fette più succulente della torta erano già state spartite tra britannici, statunitensi, francesi, giapponesi e altre potenze minori ed erano rimaste nel piatto solo povere briciole. Sarà pur vero che il nostro capitalismo straccione non poteva che generare un pari colonialismo da pezzenti. Tuttavia, queste condizioni non ne hanno attenuato la voracità e la carica distruttiva né hanno frenato i massacri, le deportazioni, i campi di concentramento, i bombardamenti dei civili, le rappresaglie, l’impiego delle armi chimiche, l’insabbiamento dei pozzi nel deserto, il terrorismo, le impiccagioni, gli stupri di guerra, le evirazioni e il vilipendio dei cadaveri, la distruzione delle povere economie locali con le conseguenti spaventose carestie e via elencando. Nel solo ventennio, centomila libici, su di una popolazione di 800 mila persone, sono morti durante le deportazioni forzate nei 16 campi di prigionia voluti da Badoglio e Graziani. Il governo etiopico ha calcolato che circa 700 mila connazionali siano morti in conseguenza della guerra di Mussolini, spacciata come missione di civiltà e lotta allo schiavismo. Che dire poi dell’orrendo eccidio del monastero di Debra Libanòs, quando i cristianissimi fascisti, freschi di Patti lateranensi, hanno decapitato il clero della più antica chiesa cristiana d’Africa? Che dire degli ascari mandati a morte per gli interessi di un piccolo re che nemmeno conoscevano? Che dire della Somalia e dell’Eritrea, le colonie italiane storiche e, guarda caso, ancora oggi tra i paesi più poveri e instabili dell’intero continente?
Non è vero dunque che il fascismo, prima dell’emanazione delle leggi razziali, non fu un regime razzista. Quest’affermazione è frutto di un negazionismo ipocrita e di un paese che ancora oggi non vuole fare i conti col suo passato. Il fascismo fu da subito razzista nella violenza con cui le squadracce dei territori irredenti, le più sanguinarie, scatenarono il terrore contro gli slavi e le altre minoranze considerati barbari. Lo fu da subito nella colonizzazione dell’Albania. Lo fu da subito con le guerre per la conquista dell’impero guidate dal criminale Graziani e da Badoglio. Lo fu da subito, fino al ridicolo, nella battaglia (persa) contro il jazz, la disprezzata musica “sincopata” “negroide”, oppure nella proibizione della prima Faccetta nera, ritenuta dal Minculpop un esplicito invito ai rapporti interrazziali!
Qualche anno dopo, a tutto questo si aggiunsero i deliri del manifesto sulla razza, le leggi razziali e quelle sul meticciato, l’antisemitismo e i crimini di guerra al confine orientale. L’innesto riuscì perfettamente perché l’albero era già cresciuto, innaffiato di sangue, terribile e rigoglioso per quasi vent’anni.
Questi morti sono affratellati con tutte le vittime del nazifascismo, dai campi di sterminio a Marzabotto, a Sant’Anna, alle Fosse Ardeatine. Di fronte alla barbarie nazifascista il colore della pelle è uno solo: quello dell’innocenza. E la Resistenza è stata prima di tutto una lotta senza confini contro una violenza che non conosceva limiti, una lotta che accomunò ovunque uomini e donne di diversi paesi, come nelle brigate internazionali di Spagna, come nel maquis francese, come nelle formazioni partigiane italiane.
Giorgio Marincola rappresenta uno dei simboli più belli del carattere internazionale della lotta antifascista. Giorgio fu il partigiano più ricercato dai nazisti perché nero, perché, come Jesse Owens nelle olimpiadi berlinesi del 1936, rappresentava la prova vivente, da una parte, della volontà di riscatto e di ribellione e, dall’altra parte, della miseria delle ideologie basate sul razzismo e sul nazionalismo.
Giorgio Marincola nasce nel 1923 nei pressi di Mogadiscio in Somalia, figlio di un agente coloniale italiano e di una bellissima donna somala. Non essendoci ancora le leggi razziali, il padre, richiamato in Italia, lo porta con sé dove il giovane segue un regolare corso di studi iscrivendosi alla facoltà di Medicina di Roma. Nel 1943, assiste al rastrellamento nazifascista nel ghetto ebraico. Il suo maestro spirituale, il cattolico antifascista Pilo Albertelli, e la sua ragazza, staffetta partigiana comunista, sono trucidati alle Fosse Ardeatine. Giorgio entra nella resistenza azionista e, dopo la liberazione della capitale, viene paracadutato con una missione alleata nel Biellese. Combatte coi partigiani. Più volte è ferito. Per il coraggio, per la perizia, e per il colore della pelle, diventa il ricercato numero uno dagli ariani nazifascisti. Nel gennaio 1945, è preso, incarcerato e torturato. I criminali promettono di interrompere le sevizie se Giorgio accetta di andare alla radio, rinnegare le proprie convinzioni e tradire la Resistenza. Accetta, ma, quando si trova davanti al microfono, gli aguzzini rimangono senza fiato perché le sue parole esaltano la libertà e la lotta antifascista. Radio Londra registra e diffonde la trasmissione: dopo le parole di Giorgio, si sentono grida e rumori di botte e di mobili rovesciati. Lo deportano nel lager di Bolzano dove riesce a sopravvivere fino all’arrivo degli alleati che lo liberano. Potrebbe finirla lì. Invece, ritorna tra i partigiani della val di Fiemme. Sono gli ultimi giorni di combattimento, quelli più pericolosi. I nazisti fuggono. Sono bestie ferite. Un gruppo di SS si apre la strada ammazzando ancora, civili e partigiani. Tra questi, Giorgio Marincola, ucciso a tradimento il 4 maggio 1945. Aveva 22 anni. Coloro che lo hanno conosciuto dicono che era bellissimo.

8 maggio 2016

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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