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FABIO FRANZIN, da FABRICA a CO’E MAN MONCHE / Reprint

Loro, gli operai pensavano che questo potesse capitare

sol tea Fiat, pa’ esenpio, tee fabriche
massa grande, sgionfàdhe de operai,
de lòte sindacài
[solo alla Fiat, per intenderci, nelle aziende
troppo grandi, gonfiate di maestranze,
di lotte sindacali]

Pensavano di essere al riparo dalla tempesta e che questo non potesse mai succedere nel Nord Est del miracolo economico, dove “sbàtoea e dovér / no’ i ‘à mai fat rima in fra de lori” [brontolio e dovere / non hanno mai fatto rima fra loro]. Invece, non sono serviti a nulla i silenzi, la passività, l’autosfruttamento, la mancanza di coscienza di classe, la fede nell’ideologia del mercato globale e del consumo. Per loro, la mobilità, “che vol / dir «a casa, a spasso» senza schèi / chissà fin quando.” [che vuol / dire «a casa, a spasso» senza salario / chissà fino a quando”], è arrivata ugualmente lasciando incredulità e desolazione, corone di spine e sguardi nel vuoto. Il gigantesco moloc del capitale, come sempre, ha ripagato in questo modo crudele i suoi piccoli e sprovveduti figli, svelando brutalmente davanti ai loro occhi la realtà profonda dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Quella che Fabio Franzin racconta nelle due raccolte di poesie Fabrica (Atelier, 2009) e Co’e man monche (Le Voci della Luna, 2011) è la parabola che, nei decenni successivi agli anni ‘80 e in modo particolare in questi ultimi tre anni, hanno attraversato centinaia di migliaia di lavoratori espulsi dalla produzione e gettati ai margini del mercato. Molti di loro hanno lottato prima e dopo, hanno intuito l’esito inevitabile dell’erosione dei diritti e dell’intensificarsi dello sfruttamento in fabbrica, hanno cercato in qualche modo di contrastare lo tsunami sociale. Molti altri – i lavoratori precarizzati, interinali, esternalizzati, gli operai del decentramento, degli appalti, delle cooperative, dell’indotto, delle piccole e medie aziende, dei distretti dei vari miracoli economici regionali – non hanno potuto fare altrimenti che accettare le condizioni sempre più disumane imposte dal mercato del lavoro. Altri ancora, non pochi, ne sono diventati con convinzione un alleato, un ingranaggio moltiplicatore o addirittura hanno unito le loro voci ai peggiori cori di un’era iniziata con l’annuncio trionfale della fine delle ideologie e tramontata squallidamente nel putridume delle più miserabili ideologie del berlusconismo e del leghismo.
La poesia di Franzin assume ancora più valore proprio perché racconta per esperienza questa lato risposto e frammentato di una classe in sé, rassegnata, svuotata della sua dimensione epica, fatta di uomini-lepre, che cercano di sopravvivere davanti a un padrone-falco o cacciatore, popolata di operai che hanno perso la dimensione della solidarietà, pronti a fare la spia per ingraziarsi la direzione, che ridono a bella posta alle barzellette del capo perché conviene, contenti di fare gli straordinari perché hanno perso lo straordinario della vita, di donne a cui la fatica ha soffocato la femminilità, di capireparto che si sentono reucci, di una fabbrica dove, accanto al padrone-paperone, i lavoratori sono tanti iellati paperini.

Una condizione universale. Fabio Franzin nasce a Milano nel 1963 da una famiglia di origine veneta. Un destino, quello dell’emigrazione, trasmesso di generazione in generazione, passato di mano in eredità insieme alla miseria che faceva desolate quelle terre. I parenti si erano sparsi nel mondo alla ricerca di lavoro. Il nonno era stato costretto ad abbandonare la casa davanti all’avanzata austriaca durante la Grande Guerra. Il padre era riuscito, ancora una volta al prezzo doloroso della partenza, a sfuggire ai tedeschi nella seconda guerra. Nel 1970, attratta dalle nuove prospettive offerte dallo sviluppo industriale del Nord Est, la famiglia Franzin aveva lasciato la metropoli lombarda ed era tornata nel Veneto. Un itinerario comune a molti come la storia del camionista Tolfo del racconto Camioneto rosso, trent’anni “spenduti longo le strade di meza Europa” e gli altri in fabbrica a soffrire, insieme allo sfruttamento, le più cocenti umiliazioni e svergognate. Un andirivieni che ormai, nel mondo globale, mescola e intreccia i destini più lontani come quello di Smirald, arrivato per mare su di un gommone, e, dopo 16 anni di fabbrica, costretto a tornare in Albania, dove s’è fatto su “un tòc de casa” [un pezzo di casa].
Fabio aveva iniziato a lavorare in fabbrica a 16 anni stabilendosi a Motta di Livenza in provincia di Treviso. La sua produzione poetica è preceduta dall’apprendistato di lettore “accanito e onnivoro” e da un lungo processo di scavo secondo un percorso che ritroviamo frequentemente da due secoli a questa parte nelle vite dei poeti operai, autodidatti di formazione, dall’Arbeiterdichtung fino alle esperienze in qualche modo legate al filone di letteratura e industria. Nel 2000, l’esordio con la raccolta in dialetto El coeor dee paroe, poi, nel 2005, Canzòn daa Provenza (e altre trazhe d’amòr) e, nel 2007, Mus.cio e roe (Muschio e spine). Quindi, l’attenzione degli ambienti cattolici e le recensioni su “Famiglia Cristiana”, “Avvenire” e “L’Osservatore Romano”. In effetti, nell’opera di Franzin, il riferimento al sacro è costante al punto che lo stesso paesaggio ne porta i tratti distintivi:

Paesi nostri
che i me parèa squasi dei presepi
desmentegàdi in mèdho ae canpagne
[Paesi nostri
che sembrano quasi dei presepi
dimenticati in mezzo alle campagne]

Si tratta di una religiosità che viene da un sostrato millenario di civiltà contadina in cui, negli ultimi secoli, la chiesa ha arbitrato i rapporti tra il potere e il popolo in modo da stemperare le tensioni in rassegnazione, disciplina e dolente accettazione di un ordine sociale di fatto immutabile. Anche in Fabrica e in Co’e man monche i rimandi alla sfera e alla simbologia religiosa sono presenti. Più volte gli operai sono chiamati fratelli e la loro vita è “ ‘na crose storta dai doeóri” [una croce storta dai dolori]. Sono operai che bestemmiano. Franzin si chiede se ci sarà per loro perdono da parte di un dio accostato a un “antro parón” [altro padrone] che chiede i danni e ricorda di aver creato il mondo senza mai riposare, in una fabbrica in cui la croce è quella del tempo. Il riferimento religioso ingloba gli stessi strumenti così un pezzo sbagliato rimane in mano all’operaio come mancia per la croce da portare, il silo della fabbrica è come un campanile e, quanto all’implacabile nastro trasportatore della pressa, “Che Dio lo perdone” [Che Dio lo perdoni].
In ogni caso, la materialità del lavoro e la crudezza della crisi sono così forti da collocare sullo sfondo, se non da sgretolare il naturalismo sacrale della precedente produzione ponendo in evidenza la realtà nuda e cruda dello sfruttamento. La fabbrica ha distrutto in modo irreversibile il territorio, lasciando “paesi senza pì vose e senza / siénzi, senza pase e senza poesia” [paesi senza più voce e senza / silenzi, senza pace e senza poesia], poi ha frammentato le relazioni tra gli uomini, li ha privati della voce e della dignità e, alla fine, in questa landa desolata, ha distrutto se stessa, si è fatta ammasso di ferraglia arrugginita e capannoni vuoti, rottami di cose che si aggiungono a rottami umani. Dunque, non ci sono alternative nella logica spietata del capitale: la schiavitù della fabbrica o l’annullamento esistenziale sono i due poli entro i quali è compresa la condizione umana del nuovo millennio. A questo punto, il poeta non canta più la sua vicenda personale, ma il destino di milioni di uomini.
Il nodo rimane tuttavia irrisolto: da una parte, una sacralità rimpianta, la speranza e la ricerca di un senso al tutto; dall’altra parte, la spietatezza dei meccanismi del reale, la disperazione e l’inesorabile assurdità delle cose che accadono ogni giorno. Si cerca consolazione nell’interclassismo, perché la crisi non guarda in faccia a nessuno e colpisce tutti, ma l’evidenza dei fatti svela una crudele gerarchia tra le vittime, tra chi soccombe e le foglie sulla cima del pioppo, emblema di “chi l’è ‘rivà in zhima / aa scàea” [chi si è arrampicato in cima / alla scala] e ha fatto i soldi. Non c’è parità, né corrispondenza tra chi è strangolato dal mutuo e la banca che comunque non ci perderà. Inoltre, per il passato, non tutti hanno venduto l’anima al denaro per lo stesso motivo. Anche qui non c’è par condicio: alcuni lo hanno fatto per bisogno e necessità; altri invece per voracità, per egoismo o per fame di profitto. In definitiva, non c’è sbocco alla situazione e domina un senso d’impotenza. In Fabrica, questo sentimento è ritmato dalla ripetitività dei gesti e dalla manualità; in Co’e man monche, dall’inoperosità e dall’atto tutto sommato passivo del guardare.

Parole di mani. Fabrica e Co’e man monche sono due libri complementari: il tempo che li separa li ha uniti così strettamente da renderli inseparabili. La continuità è sottolineata, tra l’altro, dal tema delle mani che finiscono con l’assumere nei testi diversi e complessi significati.
Prima di tutto, le mani sono lo strumento appunto del lavoro manuale e segno della divisione del lavoro stesso e della società. Le mani devono andare da sole, inseguire sempre più veloci i ritmi della produzione e “ ‘e porta / via co’ lore anca ‘l zhervél” [trasportano / con loro anche la mente]. Esse incollano il corpo dell’operaio al pezzo da lavorare che, alla fine del turno, sembra quasi non voglia più staccarsi per lasciarlo andare a casa. Il padrone, quando passa tra i reparti non guarda negli occhi, ma fissa le mani dei suoi dipendenti perché a questa parte anatomica, merce che lui ha comperato, sono ridotti gli uomini in fabbrica. E sono mani che portano i segni del lavoro, callose e “tute sgrafàdhe” [tutte graffiate]. I materiali e gli attrezzi le rendono “rúspighe” [ruvide] e non sembrano più le mani degli innamorati che, sotto la luna, si guardano “ciapàdhi par man” [mano nella mano]. I guanti, fatti per salvarle e proteggerle, ne modificano le dimensioni e fanno sembrare “squasi man pì grande” [quasi mani più grandi]. A volte sono mutilate delle dita a causa di un incidente: un “zhigo”, un grido, e una mano maciullata dalla pressa, la corsa verso l’ospedale “ ‘na só man infagotàdha / tel traversón nero del capo” [una sua mano avvolta / nel grembiule nero del capo]. “Se va in zherca / dei dó tòchi de déo” [Si cercano / due falangi], e poi si ritorna al lavoro “co’i déi che trema” [con le dita tremanti], perché in fabbrica non c’è spazio per elaborare le emozioni né per pensare e il tempo è salario.
Se la fine di una dura giornata è segnata dal rito di lavarsi le mani, si lavora, per non stare con le mani in mano. Darsi una mano, atto sempre più raro, è segno di umana solidarietà, ma la mano aperta serve per avere l’elemosina del padrone e lo stesso gesto il poeta coglie in un manichino esposto in vetrina con la mano allungata verso il cliente, come a implorare la carità.
Il miracolo economico finisce, le fabbriche chiudono e per gli ex lavoratori si apre l’interminabile tunnel dell’inazione e dell’attesa. Allora le mani diventano inutili appendici del corpo, sono forche gettate di notte nel pozzo, restano “vòdhe”, cioè vuote. Servono più a poco: davanti alla fabbrica serrata, per accompagnare le parole coi gesti, che “scrive l’aria co’e man” [scrivono l’aria con le mani], oppure a sottolineare i momenti della disperazione. Piene di spine, si ammalano a far niente: “ ‘e só / man ‘e se ‘à maeà parché inciodàdhe / tel nient” [le sue / mani si sono ammalate perché inchiodate / nel vuoto]. Per far passare il tempo, si può rosicchiarne i calli, ma ne rimagono solo “stigmate mate”, cioè fasulle. Sotto la neve, si può stringerle alle sbarre del cancello chiuso e rimanere lì, svuotati e increduli come un pupazzo di natale. Tra i panni stesi e agitati dal vento, le maniche si muovono come fantasmi, “monche de man, come a dir aiuto” [monche di mani / come in una richiesta di aiuto].

Fabrica. La raccolta Fabrica è divisa in tre sezioni: Pòri operari [Poveri operai], Par nome [Per nome] e l’Appendice: Traduzioni operaie, su testi di Antonio Gamoneda, Fabiano Alborghetti, Alberto Bellocchio, Luigi Di Ruscio, Riccardo Olivieri e Attilio Zanichelli.
La prima sezione s’inaugura con la descrizione di una pausa di lavoro, l’unico momento in cui gli occhi possono veramente guardare e vedere la condizione di quegli uomini “tuti ‘tacàdhi”, cioè legati tra di loro dalla catena del bisogno, come i carrelli di un supermercato che un padrone-consumatore può prendere, usare e scaricare a piacimento. La fabbrica è un universo imbastardito da una classe operaia mescolata e ibrida:

Un mondo intièro fracà
drento i dièse metri
quadri de un reparto,
de razhe tute quante,
de tute ‘e reijón: slavi

e indiani, romèni e neri,
atei e cristiani, musulmani
o de jèova, del demonio
dea fame o del dio dei schèi,
tuti mis.ciàdhi, cussì, tuti

deventhàdi un fià pì fradhèi
fra de lori,
[Un mondo intero stipato
nei dieci metri
quadrati di un reparto,
di tutte le sue razze,
di tutte le sue religioni: slavi

e indiani, rumeni e neri,
atei e cristiani, mus(s)ulmani
o testimoni di Geova, del demonio
della fame o del dio denaro,
tutti mescolati, così, tutti

già un po’ più fratelli
fra di loro]

È una classe senza progetto collettivo, ridotta ai primordi della comunicazione, che s’intende a segni primitivi, odori, sguardi, gesti, suoni quasi inarticolati, grida. È la classe cresciuta negli anni della sconfitta, messa in disparte dai media e cancellata dall’arroganza del craxismo. Quella classe di cui era stata annunciata la scomparsa nella società postmoderna, quegli uomini sempre più lontani, sconosciuti e abbandonati da una sinistra e da un sindacato alle cui orecchie da tempo suonano dolci solo le sirene del mercato e delle compatibilità del capitale. È una classe che ha fatto propria una cultura della sconfitta, oppressa da ritmi di lavoro sempre più veloci, privata della dignità, dei diritti e dell’autostima, con “fémene operaie” desessuate, precocemente sfatte dalla fatica, invidiose di quelle donne più spregiudicate, o più fortunate di loro, che sono riuscite a incastrare il babbeo di turno o a diventare veline. La fabbrica è “blè e griso”, grigia e blu. Tutti gli altri colori non timbrano il cartellino e rimangono fuori dai cancelli. La fabbrica sfrutta, distrugge, manda i sogni “in ‘séo”, in aceto, per pochi soldi maledetti, “i schèi / maedhéti”. Ormai, la lotta è per la sopravvivenza quotidiana e consiste nel non scivolare in una condizione di completa schiavitù, ora che in ogni angolo del mondo ci sono disperati che si vendono per sempre meno, ora che i padroni si sentono padroni “anca dea tó vita” [anche della tua vita], “ ‘Dèss, po’, / che i tenpi i ‘è tornàdhi / a èsser scuri” [Ora, poi, / che i tempi sono tornati / bui], “ ‘dèss che / l’è da tègnerseo stret / co’ i denti, ‘l posto” [ora che / è da tenerselo stretto / con i denti, il posto].
L’uomo è ridotto a numero, a cyborg, a comparsa teatrale, a un “tòc”, un pezzo lavorato. Quando è festa, non basta lavarsi e cambiarsi d’abito perché la condizione operaia rimane impressa negli occhi servili e nelle parole che escono deboli o false come quando ci si trova davanti al capo o al padrone. “L’è te che l’ora bèa”, è in quell’ora bella, la più bella, in cui la fabbrica si ferma e si spengono le macchine, che finalmente capita qualcosa di umano: in un silenzio denso e irreale, si può sentire il proprio respiro.
Più che a Spoon River anthology, dove i morti dormono sulla collina, i vivi della sezione Par nom rimandano a uno schema classico. Nelle Vite parallele, Plutarco accoppia le biografie di un personaggio greco a quella di uno romano. Franzin ripropone lo stesso impianto nella seconda sezione di Fabrica, dove a una figura operaia, forse ancora in carne e ossa, accosta una macchina o uno strumento di lavoro, forse ancora oggetto, personificato (i nomi sono sempre con l’iniziale maiuscola) e umanizzato. Gli uomini diventano robot e le macchine s’incarnano. Tuttavia, in questa fabbrica, questo processo è ancora acerbo e inconcluso. Non siamo nell’inferno marchionnale di Melfi, di Mirafiori o di Pomigliano, dove i tempi di lavoro si calcolano al centesimo, i robot fanno l’andatura e il capitale è, ohibò, di “sinistra”, entità per questo ancora più lontana, terribile e inafferrabile. La Fabrica di Franzin, la Europan di Motta di Livenza, è un piccolo pannellificio del Nord Est nel quale aspetti di modernizzazione dell’organizzazione del lavoro convivono ancora con modi di produzione piuttosto tradizionali. Il padrone consiste, c’è e si vede, circola insidioso e furtivo con le sue gambette per i reparti nascondendosi per spiare gli operai, si materializza in una meschina gerarchia di spioni, lecchini, quadri e capetti. Se non altro nel carattere grottesco di queste presenze, qua e là, rimane ancora qualche spiraglio di umanità.
Le coppie di queste vite parallele hanno legami sottili, governati da un ironico contrappasso. Così, la Sirena si accompagna a Marta, “quarantatrè ani” passati a levigare il legno mentre il lavoro si gratta via la sua bellezza ammaliatrice. “Lori, i Guanti” [Loro, i Guanti], che paiono un preservativo infilato sopra la voglia di carezze, sono affiancati a Sergio, che voleva diventare medico, e indossare ben altri guanti, entrato in fabbrica per una stagione e rimastovi per una vita con un magone che nessun dottore potrà mai curare. Il Silo che aspira la segatura diventa il totem di un campo indiano in mezzo a segnali di fumo e, col suo ghigno indecifrabile, richiama il ridere compiacente, che “no’ costa niént” [non costa nulla], di Roberto davanti alle barzellette del direttore.
Seguono i ritratti di Renato, a cui la segatura e la sabbia rimaste appiccicate al corpo e agli abiti da lavoro, quando apre l’acqua per lavarsi, ricordano l’amore sulla spiaggia, Mirco, Joussuf, Lino, Luisa, che ha studiato da segretaria ma lavora in uno scatolificio dove, chiudendo una scatola dopo l’altra, vi ha riposto il diploma, i sogni, i ricordi e il sorriso, Piero, contento di fare gli straordinari. Macchine e strumenti paralleli sono la Fabrica, la Sirena, el Tapéo dea pressa, che passa sempre più veloce “davanti ae man” dell’operaio, a Lama tonda, cioè la sega circolare, el Repetón, cioè il frastuono della fabbrica.
L’ironia c’è ed è amara, ma questa amarezza è una rivendicazione ancora gioiosa di vitalità come gli scherzi che si fanno tra operai non solo per gioco o per vendetta, ma

…pì che
altro i sii fa pa’ ‘scoltàrse,

oniùn, ‘a só risàha soeàr
de gusto, alta, fra ‘e tasse
e ‘l repetón dee machine
[…più che
altro se li fanno per ascoltarsi,

ognuno, la propria risata volare
di gusto, alta, fra le pile
e il rumore dei macchinari]

Nella società dei consumi e dei media, l’ironia fa appello alle risorse del fumetto, del cartoon, dello spettacolo televisivo. Così, Lore, ‘e Machine [Loro le macchine], quando si avviano, sembrano Goldrake, l’ufo robot che si risveglia. Le fabbriche diventano discoteche senza balli oppure teatri dove gli operai recitano sempre lo stesso copione di Arlecchino, Colombina e Pantalone o ancora strip di carta animate da personaggi disneyani.

Co’è man monche. L’ultima raccolta di Franzin si articola nelle sezioni Passà el sant, passà el miràcoeo [Passato il Santo, passato il miracolo]; MÒBII / MOBIITÀ [MOBILIA / MOBILITÀ]; Co’e man in man [Con le mani in mano]; El corpo dea crisi [Il corpo della crisi]; Prose del tricoeór [Prose del tricolore]. Si conclude con la lirica ‘A piòpa [Il pioppo].
Passà el sant, passà el miràcoeo è un proverbio veneto, un sapere popolare cristallizzato che riporta a una dimensione sacrale atavica con tutta la sua carica di saggia disillusione, ma qui il prodigio è quello dello sviluppo economico e finanziario del Nord Est e il suo tramonto lascia gli operai “senza casco, senza paracadute”. Il miracolo ha portato i soldi, le sacre reliquie dei consumi di massa, ma al contempo ha allontanato “dal presepio e daa stéa, dal sacro” [dal presepio e dalla stella, dal sacro], ha irrimediabilmente eroso un equilibrio millenario e ha consumato quelle risorse materiali e umane che hanno assicurato la sopravvivenza, seppure grama, delle generazioni precedenti. I premi dell’albero di cuccagna si sono induriti “de bròsa”, di brina. Il Santo è in mutande, possiede solide gambe di legno buono, come quello dei mobili, spalle larghe di truciolato rivestite in pelle ed è rafforzato da varia ferramenta come i trasformer. La crisi che si preannuncia è lutto per tutti, “operai / e paroni, leghisti e ciavasanti” [operai / e imprenditori, leghisti e bigotti]. I cartelli di “VENDESI, FITASI” pendono premonitori ovunque, ma prima era già stato affittato “el cuòr ai schèi” [il cuore al denaro]. La tempesta è nell’aria.
La grandinata devastante ha il suono di un drammatico gioco di parole MÒBII / MOBIITÀ: “mobilia”, cioè il complesso dei mobili, ma anche, secondo l’etimo latino, “beni mobili”, oggetti da spostare a piacere, e, ancora, la merce prodotta dalla fabbrica su cui si sta abbattendo la bufera; “mobilità”, parola tronca, orrido neologismo imprenditorial-sindacalese, che, come tutte le parole nuove, appena sentite e non appartenenti al proprio vissuto, conserva un’oscurità lontana e inquietante. La lirica d’apertura Èco, vardéne: sen qua, tuti insieme [Ecco, guardateci: siamo qui riuniti] reca la premessa “Ottobre 2009, il giorno in cui a me e ai miei 83 colleghi è stata comunicata la chiusura dell’azienda in cui prestavamo la nostra opera”. Il “vardéne” rimanda al “Varda chii operai, varda” [Guarda quegli operai, nota] di Fabrica e ne costituisce un prezioso elemento di connessione e tessitura. L’atto del guardare, uno sguardo reale e pregnante che esige almeno un cenno, un effetto di ritorno, uno sguardo ben lontano dall’occhio virtuale che si getta sullo schermo, ritorna martellante in tutta la sezione, trascolora in un guardateci mentre ci guardiamo “ ‘e man vòdhe” [le mani vuote] e callose e sfuma con l’uscita di scena del poeta con un repentino cambio di piano e d’inquadratura:

Quel son mì, vardéme, ve preghe,
vardé co’là che a passi sòchi el se
incamìna verso ‘a machina, la vèrde,
[Quello sono io, guardatemi, vi prego,
guardate quello lì che a passi mesti si
incammina verso l’auto, apre la portiera,]

Gli operai sono insieme per l’ultima volta sotto la tettoia di eternit e di lamiera, ma non sono uniti, anche se “ ‘dèss che forse / pa’a prima volta sen davéro tuti / compagni” [adesso che forse / siamo per la prima volta davvero / una classe]. Tuttavia, la classe rimane classe “in sé”, cioè un branco, un dato oggettivo e passivo, e non classe “per sé”, cioè elemento cosciente in grado di reagire e progettare collettivamente un futuro diverso. Questo divario è indicato con chiarezza dalla parola “compagni”, con la “m”, che è italiana e non dialettale, in qualche modo estranea all’universo linguistico dei personaggi. In definitiva, questi operai rimangono prigionieri del paternalismo aziendale, sono tanti figli abbandonati dal padre. Si ritrovano soli mentre il sindacalista e il direttore si allontanano per il rito di una trattativa il cui esito è già segnato in partenza. In questa solitudine, passa nella memoria di ognuno il film di vent’anni di lavoro: ruffiani e litigi, bestemmie e sudore, fatica e progetti di vita, amori di fabbrica e mutui, figli che crescono e mal di schiena. Gli operai hanno saputo. Sono di nuovo soli, ammutoliti, accasciati, gli sguardi nel vuoto. Mobilità, il lato oscuro della parola, si manifesta terribile: “che vol / dir «a casa, a spasso» senza schèi / chissà fin quando.” Piano piano il piazzale davanti al mobilificio sfolla, si dirada, i più si muovono e se ne vanno. Rimangono in dieci degli ottanta che erano presenti nella prima mattinata. Qualcuno motteggia: “chissà che bruta / ‘dèss ‘a vita, star coi cójoni in man” [Chissà che brutta / ora la vita, stare coi coglioni in mano], ma non c’è ironia, non c’è quello scherzare per sentire risuonare nei capannoni la propria voce e ricordarsi di essere uomini. Poi si rimane in cinque, in tre...
Adesso, senza gli operai, le macchine sono solo ferro vecchio. La fabbrica è morta, è vuota, ma, nei giorni corti di dicembre, è la meta ricorrente dei passi di chi è rimasto senza lavoro. La nuova zona industriale non ci sarà, rimarrà una terra senza uva – prima c’era un vigneto – e senza lavoro. Con le mani in mano, serrate in un pugno di rabbia, si va al bar. Si vaga per il paese come i pensionati, o come i fannulloni fino a ieri tanto disprezzati. Ci si abbrutisce in casa davanti alla televisione perché uscire col freddo e senza soldi non si può. Si fuma aspettando che la crisi passi. Ci si trova sotto i portici tra un’occupazione domestica e l’altra per scambiare quattro parole. I giorni non passano più mentre, dove c’erano le fabbriche, in quel labirinto di strade che pare un videogioco, regnano solo rovinàzhi, le rovine di un impero crollato; tasse / de bancài rebaltàdhi [pile / di bancali rovesciati]; nàili / verdi [teli / verdi]; scarti, rùi, machine, rùdhene, biìci [scarti, rulli, macchinari, ruggine, bilici] e

…Carte che core
tel ‘sfalto, no’ le ‘é pì schèi
che ‘à conpà anca l’ànema.
[Le cartacce che corrono
sull’asfalto, non sono più soldi
che comprarono anche l’anima.]

Qualche compagno di lavoro si ammala di depressione e finisce in ospedale, ma, nell’andarlo a trovare, mancano le parole di conforto per chi ha lo stesso cappio al collo. I sogni degli immigrati muoiono. Rimane la consolazione dei figli il cui futuro rimane più che mai incerto. Il più piccolo porta al padre le macchinine rotte da aggiustare: un nuovo lavoro in attesa di quello vero e lui le aggiusta con una pazienza che non ha avuto prima, sperando che anche il destino lo ricambi con la stessa moneta e che le mani possano tornare a procurare il pane.
Tuttavia, questi momenti sono solo un anticipo di quello che sarà il “corpo dea crisi”. Passano i mesi di cassa integrazione, tutti diventano “pòri cristi” [poveri cristi], e per qualcuno il calvario della mancanza di lavoro inizia non a 33 ma a 50 anni.
Le Prose del tricoeór, una particolare celebrazione del 150°, preannunciano la chiusura della raccolta. Numaro verde [Numero verde] prende spunto dal numero telefonico istituito per assistere psicologicamente gli imprenditori sull’orlo del suicidio. Un bel gesto cristiano, ma nessuno ha pensato di istituire un numero verde per gli operai, anche se “ ‘l scuro l’è conpagno per tuti, e oniùn va a palpéta co’e man che l’à, ‘e sie piene de cài e de sgrafi o ‘bituàdhe a firmar ordini e assegni” [il buio è fitto per tutti, e ognuno va a tentoni con le mani che ha, siano piene di calli e di graffi o abituate a firmare ordini e assegni]. Bianco. Neve e fantasmi è una prosa in tre quadri, mentre Camioneto rosso ha per protagonista Tolfo, un pensionato che decide di raccogliere i suoi ricordi mentre fuori nevica. Il camioneto è un giocattolo per il nipotino, emblema di una famiglia-nido, ultimo rifugio e baluardo contro la disumanità e la ferocia dei rapporti imposti dal miracolo economico del Nord Est.
Il commiato è la lirica ‘A piòpa. Guardando il maestoso pioppo del parco delle scuole, dopo un anno e mezzo di cassa integrazione e di speranze deluse, il poeta osserva che solo sulla cima è rimasto un parrucchino di foglie: niente può spogliare chi ha raggiunto la cima, il “nido colmo de schèi” [il nido ricolmo di soldi], nessuna foglia di quelle si staccherà per cadere nel fango in cui marciscono tutte le altre.

Il ritorno dell’onestà. Franzin scrive in dialetto opitergino-mottense, la parlata dell’area compresa tra Oderzo e Motta di Livenza, e in italiano. Viene generalmente considerato un poeta neodialettale. La sua scelta espressiva più che bilingue è collocabile in una condizione di diglossia, caratterizzata dalla coesistenza di due sistemi linguistici di diverso prestigio. L’italiano è la lingua appresa per prima durante l’infanzia e l’adolescenza a Milano, dove i genitori parlavano l’italiano anche in casa. L’incontro col dialetto avviene successivamente dopo il rientro nei luoghi di origine della famiglia. Il dialetto è dunque una sorta di lingua d’immigrazione, assimilata come una lingua straniera ma avvertita e impiegata dal poeta come lingua “alta”.
La ragione di questo stato privilegiato del dialetto risiede sostanzialmente nella sua onestà, cioè nella capacità di aderire con immediatezza alla realtà e di trasmettere valori. È facile individuare in questa concezione un importante nesso con la poetica di Umberto Saba e col saggio Quello che resta da fare ai poeti (1912), in cui il poeta triestino proclamava la necessità di una “poesia onesta”. Ed è ancora più significativo che questo anelito di onestà venga da un poeta operaio così come la classe operaia ha rappresentato, e, seppure sconfitta e ammutolita, continua a rappresentare in questo paese corrotto fino alle midolla, una forza di cambiamento e una riserva preziosa di valori e di moralità. Tra i maestri e i “padri spirituali” di Franzin ritroviamo altri poeti dal vigoroso profilo etico e dalla parola schietta e robusta: Andrea Zanzotto, Biagio Marin e Romano Pascutto, nativo di San Stino di Livenza.
Il lessico galileiano si forma in parte significativa attraverso la frequentazione e l’osservazione dei cantieri dell’Arzanà della Serenissima: questo antico legame tra le parlate popolari e il lavoro manuale si conserva nella poesia di Franzin che offre il catalogo di un vero e proprio lessico regionale di fabbrica. Vi ritroviamo gli indumenti dell’operaio (traversón, tute, guanti); i materiali di lavoro (bancài, tasse de materiàe, blòc de trucioeàre, ojàzh, vernise, panèj, fòji de tranciato, còea, panèl); gli attrezzi (ciave inglese, càibro, boro, ciave da disdòto, lama, tanpón, vidhe); le macchine e le loro parti (muéti, pressa, conpressori, tapéo dea pressa, multilame, trancia, torni, fresa, rulière, bordatrice, tronchino, sega tonda, manomètri, bótoni, motori, disco de tecnoeógia, denti de widia, ponte in diamante, cadhéne, perno de aciàio, rui); impianti e luoghi (tubi de aspirazhión, capanón, ciminière, sirena, fìnestroni, silo, oficìne, ofìci, cancèi, nèon); i vari aspetti dell’organizzazione del lavoro, delle lavorazioni e delle mansioni (capo, bociàzha, tornidhór, scaricatóri, capèa, ordini, turno, posto, ferie, straordinario, toc, mòbii, antina, asta, travèrs, invidàghe, grata co’ a carta de véro, programà).
L’ultima raccolta di Franzin presenta tre prose. Il breve racconto Camioneto rosso è scritto in lingua mista veneta e italiana a imitazione delle lettere degli emigranti e di quelle spedite dai soldati al fronte durante la Grande guerra. Si tratta di una lingua che si pone alle soglie dell’alfabetizzazione, nella magmatica fase di passaggio dal dialetto alla lingua nazionale e dall’oralità alla lingua scritta. La prosa è continua senza capoversi. La narrazione è in prima persona.
Da un punto di vista metrico, in Fabrica, il poeta impiega versi in prevalenza ipometri e strofe pentastiche. Ogni composizione è costituita di cinque strofe e non vi sono schemi di rima ma liberi giochi di assonanze e, a volte, di rime interne. La struttura riproduce in questo modo la serialità, la ripetitività e la monotonia del lavoro in fabbrica. Co’e man monche propone invece un’articolazione più varia. Ritroviamo ancora strofe pentastiche ma anche il distico, la quartina e la sestina. Prevale la misura dell’endecasillabo e, al solito, sono numerosi e molto forti gli enjambements. L’andamento vario e irregolare amplifica l’incertezza della condizione esistenziale, l’alterazione del ritmo della vita quotidiana e il vuoto creato dal venir meno delle cadenze uniformi della produzione. L’unica sezione che mantiene un’accentuata e solenne simmetria (tre composizioni di cinque sestine di endecasillabi) è MÒBII / MOBILITÀ che si colloca nel punto di svolta e di maggiore tensione dell’intera opera.
Per quanto riguarda l’apparato retorico, la sua densità è qui maggiore. In generale, particolare rilievo assumono l’onomatopea, la ripetizione e l’allitterazione, proprio per la capacità del dialetto di “nominare le cose” così come appaiono e come suonano, senza disegnare qualche apporto della cultura di massa (“Qui Quo, Qua…mumble mumble…”, in Paperón dei operai; “tut un tun-tun de pache, / de sfiati, un gron-gron / continuo de rui e cadhéne” [tutto un pulsare di colpi, / di sfiati, uno stridio / continuo di rulli e catene], in El Repetón po’, e cussì; “E prima dei / tòchi l’è ‘l pensier de tuti / i tòchi che ‘ne spèta, là / e ‘l pensier de èsser tòchi” [E prima dei / pezzi c’è l’ansia per tutti / i pezzi che ci attendono, in fabbrica, / e il pensiero di essere diventati pezzi], in ‘Na sboconàdha, un sorso; “dièse tassèi che tase per davèro” [dieci tasselli che tacciono per davvero], Zornàdhe longhe, infinìdhe).

18 luglio 2011

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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