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E I MOHICANI RIMASERO FUORI DAL PALAZZO / Reprint

Matteo Pucciarelli, Gli ultimi mohicani. Una storia di Democrazia Proletaria, Roma, Edizioni Alegre, 2011, pp. 191

La ‘cultura della sconfitta’ ha impregnato quanto della nuova sinistra è riuscito ad approdare sulle sponde del terzo millennio e il libro di Matteo Pucciarelli sulla storia di Democrazia Proletaria indubbiamente ne porta il segno. Forse, non valeva la pena di richiamare il mito creato nel 1826 da James Fenimore Cooper. Tuttavia, è un dato di fatto che gli ultimi mohicani sono ormai diventati uno dei simboli di una resistenza sempre più difficile e frammentata allo strapotere del capitale globale.
Il lavoro di Pucciarelli fa seguito a quello di William Gambetta (Democrazia Proletaria. La nuova sinistra tra piazze e palazzi, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2010, pp. 276), due riflessioni molto diverse, ma che hanno il pregio di richiamare l’attenzione e di abbozzare una prima riflessione su una delle formazioni più anomale e più originali della nuova sinistra italiana. Non è frequente trovare un partito senza segretario. E quando, dopo una lunga discussione, questa carica fu sdoganata e, dal 1984 al 1987, attribuita a Mario Capanna, l’ex capo del Movimento Studentesco si trovò al vertice di DP senza i tradizionali carismi legati al posto che occupava. Ricorda Paolo Ferrero che “per un dirigente era possibile fare una battaglia interna, perderla, senza che questo volesse dire «Ora ti facciamo fuori»”, dinamica inconcepibile in qualsiasi altro gruppo politico. Non sempre poi si raggiungono massimi risultati con minimi mezzi, per esempio quando un piccolo gruppo di DP sgonfiò un’intera campagna antiabortista con qualche puntina di disegno. Capitò al Giro del 1989. I ciclisti della squadra della Fanini si presentarono con le pettorine “No all’aborto”: compagne e compagni appunto con le puntine. Invece, a Gerusalemme nel 1987, una piccola delegazione di demoproletari, in testa l’indimenticabile Frisullo, andò a sventolare la bandiera dell’OLP davanti alla residenza del presidente israeliano. I soldati di guardia li presero per terroristi, aprirono il fuoco, li arrestarono tutti e li sottoposero a un lungo interrogatorio. Giovanni Russo Spena cercò di spiegare che non c’era nulla di male in quello che avevano fatto e che anche il papa era sensibile al diritto dei palestinesi di avere una patria. L’ufficiale che lo stava interrogando si alzò di scatto come punto da uno scorpione urlando: «Pope is terrorist!»

Il libro di Pucciarelli fa cenno alle differenti matrici che hanno dato vita all’esperienza demoproletaria da Avanguardia Operaia, nata a Milano nel 1968, di cui furono esponenti di primo piano Emilio Molinari, Luigi Cipriani, Vittorio Rieser, Luigi Vinci, Massimo Gorla, Franco Calamida, Saverio Ferrari, Paolo Miggiano, alla Lega dei Comunisti di Romano Luperini; dal Movimento Studentesco milanese, che ebbe come leader Mario Capanna, ai cattolici del Movimento Politico dei Lavoratori, al cui interno si formarono Giovanni Russo Spena, Vittorio Bellavite, Domenico Jervolino; dal Partito di Unità Proletaria, con Daniele Protti, Vittorio Foa, Silvano Miniati, Pino Ferraris, alla Lega Comunista Rivoluzionaria, confluita in DP nel 1989 con Livio Maitan, Elettra Deiana, Franco Turigliatto. Anche i movimenti ambientalista, pacifista, Medicina Democratica, Magistratura Democratica (compì con DP un importante percorso Luigi Ferrajoli, uno dei collaboratori alla redazione della costituzione nicaraguense) e pezzi di sindacato parteciparono alla costruzione del progetto demoproletario, ancora troppo condizionato dalle vicende interne del PCI e fortemente scandito dalle tappe elettorali.
Non a caso, ai suoi primordi ci fu la tragedia elettorale della nuova sinistra nel 1972. Tre anni dopo, nacque il cartello elettorale di Democrazia Proletaria comprendente PdUP, AO, MLS, IV Internazionale e Lega Comunisti, a eccezione del Piemonte, dove lo PdUP si presentò per conto proprio e le altre formazioni diedero vita alla lista di Democrazia Operaia. Nelle elezioni del 20 giugno 1976, DP registrò l’1,52% dei voti e riuscì a eleggere sei deputati. Fu appunto dalla scissione di quel gruppo parlamentare che prese le mosse, l’anno seguente, la costituente di DP e quindi il nuovo partito che celebrò la sua prima assemblea congressuale dal 13 al 16 aprile 1978 a Roma. Il 1979 fu l’anno del disastro elettorale di Nuova Sinistra Unita, la lista senza falcemartello voluta con forza da movimentisti, sindacalisti e pduppardi, commossi ed emozionati dal passo indietro berlingueriano che accantonava l’ipotesi rivelatasi fallimentare del compromesso storico. La NSU non raggiunse lo 0,8%, ma le successive elezioni europee, con l’ingresso a Strasburgo di Capanna, consentirono di mettere una pezza e di dare un po’ di ossigeno al partito. L’armata di NSU si disperse: se ne andarono Foa con buona parte dei pduppardi e dei sindacalisti che lasciarono in eredità ai superstiti una bella fetta di debiti non solo politici da pagare.
Gli anni ’80 furono anni delle tanto invocate contaminazioni ambientaliste e pacifiste e di progressivo annacquamento dell’identità di classe. Le elezioni del 1983 fruttarono sette parlamentari con 542 mila voti, pari all’1,47%. Nel 1984, fu creata Democrazia Consiliare nella CGIL. Due anni dopo, fu una mozione presentata da DP a portare al riconoscimento dell’OLP. Il 14 giugno 1987, i demoproletari raggiunsero il loro “massimo” elettorale attestandosi sull’1,66% con 640 mila voti, otto deputati, un unico senatore (Guido Pollice), 500 consiglieri comunali, 14 provinciali e 13 regionali, insomma, un discreto, e a questo punto appetibile, pattuglione istituzionale. Si giunse così alla scissione verde-arcobaleno del 1988: Cossutta lanciò il boccone avvelenato dell’alternativa PCI-DP-cattolici progressisti, il quale fece deflagrare le tensioni interne. Nonostante gli effetti si manifestassero soprattutto sul piano delle rappresentanze istituzionali, il partito si trovò inevitabilmente in stand-by. Il congresso che si tenne a Rimini dal 7 al 10 dicembre 1989, si concluse con uno sconcertante pareggio tra le due mozioni contrapposte che raccolsero 170 deleghe ciascuna. Il 9 giugno 1991, a Riccione, l’epilogo, visto col senno di poi, immeritato per una forza dal passato breve, tormentato ma tutto sommato dignitoso e in diversi momenti utile alla resistenza dell’opposizione anticapitalistica. L’VIII Congresso decretò lo scioglimento del partito e la confluenza in Rifondazione Comunista. I voti contrari furono solo quattro e gli astenuti 13.

In questo modo si spense DP, ma i demoproletari che fine hanno fatto? Alcuni, per fortuna pochi, hanno raggiunto i vertici dello stato borghese. Il sassofonista Bobo Maroni, fino al ‘79 in DP di Varese, è stato fulminato sulla strada di Gemonio dall’aura celtica di un certo Bossi diventando quello che tutti sanno. Un altro verde, ma di diversa tonalità, Gianni Mattioli del Comitato per le scelte energetiche è stato ministro alle Politiche Comunitarie. Il valdese Paolo Ferrero dall’obiezione di coscienza è transitato attraverso la fabbrica per giungere al ministero della Solidarietà Sociale e quindi approdare alla segreteria di Rifondazione. Edo Ronchi, dieci mesi di carcere con l’accusa di aver assaltato la prefettura di Bergamo, anche lui si è convenientemente sistemato in un Consiglio dei Ministri. Silverio Corvisieri non ce l’ha fatta: se n’è andato prima che i tempi maturassero, intascandosi l’intera diaria parlamentare anziché versare l’80% al partito com’era norma. Poveraccio, fu tradito dalla fretta e preferì l’uovo subito alla gallina domani.
Invece, i funzionari, sulle cui spalle gravava la macchina del partito, spesso non avevano nemmeno un uovo alla coque o un’ala di pollo arrosto. Tra fine anni ’70 e primi anni ‘80, il loro stipendio-base si aggirava sulle 250 mila lire mensili ed erano più i mesi che saltava di quelli durante i quali veniva corrisposto. Nel 1978, DP ricevette 396 milioni di vecchie lire di finanziamento pubblico. Si favoleggiò anche di leggendari fondi neri provenienti dalla… Bulgaria tramite il funzionario d’ambasciata Simon Gheoghieu. Sia come sia, c’è da giurarci che nessuno s’è fatto una pizza e che tutto è finito nelle casse eternamente piangenti del partito e nella voragine senza fondo della gestione del ”Quotidiano dei Lavoratori”. Insomma, cosette da dilettanti, di tutt’altro segno, che fanno tenerezza di fronte al sistema di tangentopoli e alle dimensioni mostruose che ha assunto col berlusconismo il mercato della corruzione politica.
Di sicuro, gran parte del corpo militante di DP è rimasto fuori dal palazzo, irrimediabilmente contaminato da quella stessa passione comunista e da quello stesso senso di coerenza che fu, per fare un paio di nomi, di Frisullo e di Impastato. Dino Frisullo: la sua ultima battaglia fu a favore del popolo curdo e la condusse fino al punto di fare la diretta conoscenza delle galere turche. Aveva lasciato un tranquillo posto da impiegato comunale in un piccolo comune pugliese scegliendo la fame della militanza politica. Racconta Russo Spena: “Dovevamo fare un volantino per la succursale Magneti Marelli di Bari e non avevamo i soldi per stamparlo. Lui cosa fece? Si fece dare i soldi per il biglietto del treno, la seconda classe ovviamente. Prese la bicicletta e ci arrivò a Bari. Da Roma. Coi soldi risparmiati per il treno fece stampare i manifesti”. Il nome di Peppino Impastato, assassinato dalla mafia a Cinisi il 9 maggio 1978, non ha bisogno di presentazioni, benché la sua memoria sia stata imbalsamata e compressa in una sorta di legalitarismo che non appartenne all’esperienza di DP.

In definitiva, il taglio giornalistico del libro di Pucciarelli privilegia la soggettività della testimonianza e le tappe istituzionali della vita di DP. Rimangono sullo sfondo, appena accennati, i grandi mutamenti strutturali del capitalismo e gli spostamenti del quadro internazionale intervenuti durante la riscossa neoliberista dell’ultimo scorcio del passato millennio. Tuttavia, la prospettiva adottata riesce a mettere in evidenza alcune peculiarità dell’aplomb demoproletario. Per esempio, la diversa sostanza dell’amalgama con i militanti di provenienza cattolica secondo un processo che proprio nulla ha da spartire, per esempio, col passaggio di pezzi di vecchia DC dalla Margherita al PD. Per esempio, il fatto che la dissoluzione di DP sia stata soprattutto l’effetto della rapida polverizzazione dell’intero blocco storico della sinistra e di un cedimento strutturale della sinistra tradizionale contro cui le forze generose dei dirigenti e dei militanti demoproletari ben poco poterono. Con la confluenza quasi inevitabile in Rifondazione, DP ha rinnegato almeno parte della sua natura di formazione autonoma e originale della nuova sinistra distinta dalla tradizione picista. Per fare di più era necessario essere una forza di sinistra un po’ meno “nuova” e un po’ più “rivoluzionaria”.

7 aprile 2012

Pubblicazione non periodica a cura di ass. culturale Proposta Comunista - Maggiora (NO) - CF e PIVA 91017170035
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